La prima figura bassanese a spiccare effettivamente nel panorama intellettuale nazionale è certamente Jacopo Vittorelli (fig.4).
Nato a Bassano nel 1749, dal 1761 aveva studiato presso il prestigioso Collegio dei Nobili di Brescia, ove ebbe come maestro il gesuita Antonio Golini; questi, notando la precoce predisposizione letteraria dell’allievo, lo incoraggiò alla scrittura poetica. Tornato nella città natale il 1770, Vittorelli poté coltivare i propri interessi culturali nei salotti delle famiglie Remondini, Parolini e Roberti, frequentati da Giovan Battista Verci, da Bartolomeo Gamba e dal giovane naturalista Gian Battista Brocchi. Fra le figure che animavano maggiormente le serate bassanesi, vi erano l’abate Giovan Battista Roberti, tornato a Bassano nel 1817 dopo la soppressione dell’ordine dei Gesuiti e, occasionalmente, Ippolito Pindemonte e Ruggiero Boscovich. Ai salotti si affiancavano poi, secondo la consuetudine del tempo, le accademie: a Bassano l’Accademia degli Intraprendenti, fondata da Verci nel 1772, per il progresso della conoscenza e della pratica letteraria. Le accademie, i salotti, l’attività editoriale dei Remondini facevano della cittadina sul Brenta un’isola felice e assai attiva dal punto di vista culturale, aperta alle sollecitazioni del tempo: e i versi di Vittorelli lo testimoniano[64]. Il fervore e la curiosità intellettuale che animavano Bassano negli ultimi decenni del Settecento non bastarono a trattenere a lungo il giovane poeta nella città natia; a causa dei frequenti dissapori col padre, nel 1787 egli colse l’invito dell’Inquisitore di Stato Girolamo Ascanio Molin a recarsi con lui a Venezia. Nella città lagunare, ove rimase sino al 1796 e ove fu insignito del titolo di Straordinario Collazionista per uso dei nuovi codici veneti civili e criminali sotto la immediata ispezione dell’eccelso Consiglio dei Dieci, egli poté godere dell’ospitalità di Giustina Renier Michiel, nobildonna assai colta, traduttrice di Shakespeare, la quale riuniva nella propria casa i più importanti esponenti dell’aristocrazia della Serenissima, nonché Pindemonte, Ugo Foscolo, Giuseppe Barbieri e infine Luigi Carrer, il quale si prodigherà per diffondere la memoria postuma delle opere degli amici Foscolo e Vittorelli. Lasciata Venezia, il poeta bassanese si recò a Padova, ove, nella breve parentesi del Regno d’Italia, fu nominato Ispettore agli Studi e membro del Collegio dei Dotti. La fine dell’esperienza napoleonica e la Restaurazione coincisero, invece, col suo ritorno definitivo nella città natale, ove fu nominato dal governo austriaco Censore delle Stampe, incarico che mantenne fino alla morte[65]. Nel panorama della poesia del xviii secolo, l’opera dell’«Anacreonte o Tibullo italiano»[66] – rispetto ai quali Carrer notò una sostanziale mancanza di voluttà e di passione –, non spicca per originalità di contenuti; invece, in confronto agli altri poeti contemporanei, il critico riteneva che la poesia di Vittorelli fosse comunque superiore per immagini e per linguaggio[67]. Al di là dei testi dedicati a Irene o Dori e di alcune vedute di Bassano, a tutt’oggi ricordati fra le sue prove migliori, le sue pagine sono affollate di versi occasionati dagli eventi che scandivano la vita sociale del tempo: matrimoni, anniversari, monacazioni, ordinazioni sacerdotali[68]; più che trasmettere i sussulti di un’anima, i suoi sonetti e le sue strofe anacreontiche restituiscono con precisione i riti e i ritmi della società veneta sul discrimine tra Sette e Ottocento. Inoltre, all’affacciarsi sulla scena del Romanticismo, egli reagì rimanendo fermo nel proprio gusto e nella propria prassi poetica, risultando «più tenace […] di quello che sieno stati il Monti, il Foscolo e il Pindemonte»[69], che trovarono dei compromessi spesso felici tra le «vecchie dottrine»[70] e la nuova sensibilità. Carrer, che di Vittorelli era amico e ne stimava l’opera, non manca però di evidenziare come la fedeltà del bassanese alla maniera arcadica fosse il risultato della sua pigrizia, piuttosto che il prodotto di un intimo convincimento poetico: «Gli uomini sono immutabili tanto per forza d’animo e di fatte riflessioni, quanto per semplice inerzia o debolezza di ragionamento. Il Vittorelli non avrebbe forse per nulla alterato i suoi principi, anche dopo aver esaminati i principi opposti, ma crediamo non siagli mai bastata la voglia di porsi ad un tal esame»[71]. Pier Vincenzo Mengaldo ha correttamente fatto notare che dalla poesia di un uomo del Settecento non si può pensare di ricavare qualcosa della sua anima, della sua personalità singolare[72]; perciò, nell’approcciarsi alla lirica di un Vittorelli bisogna spogliarsi delle poetiche romantiche, e porsi piuttosto con la consapevolezza che ogni genere letterario - intendendo l’espressione nel senso meno normativo e più largo possibile - ha in ogni tempo dei canoni propri. Talora i poeti, precorrendo un nuovo gusto, innervano il vecchio delle urgenze dei tempi, come nel caso di un Parini; talaltra, più frequente nel xviii secolo, rimangono fedeli al sentiero già tracciato da altri prima di loro. Ed è questo secondo il caso di Vittorelli, «poeta più di costanti che di varianti»[73]linguistiche, «molto più parco»[74] di un Rolli o di un Savioli nell’uso «delle immagini e delle allusioni mitologiche»[75], che in vita e dopo la morte fu conosciuto e stimato, invece, per la forma dei suoi testi, al punto che l’abate Niccolò Scarabello, nella prefazione alle Rime edite ed inedite[76](fig.5),
unica edizione che l’autore riconoscesse «sia pel numero dei componimenti, sia per la qualità delle mutazioni»[77], scrisse che «il nome di Jacopo Vittorelli non solamente è per l’Italia ciò ch’è il nome di Anacreonte per la Grecia, ma va chiarissimo ancora fra i nomi di que’ pochi che per cert’aria di originalità e per certa squisitezza di concetti e correzione di forme emergono dalla gran folla de’ sonettisti italiani»[78]. Quanto alla diffusione della sua opera, Scarabello cita un’epistola di Innocente Natanaeli al nipote - nella quale il mittente esprimeva comunque la propria preferenza per i meno noti sonetti -, che consente di indovinare la grande diffusione delle strofe anacreontiche del bassanese, da molti mandate a memoria grazie alle numerose edizioni delle poesie vittorelliane[79]: un giudizio, questo, condiviso anche da Carrer e, più tardi, da Bertana, i quali ne testimoniarono la conoscenza non solo presso i ceti più elevati, ma anche presso gli analfabeti, i quali, in virtù della musicalità del verso, avevano imparato le liriche del poeta con facilità[80]. Distante dalla temperie romantica, sia da quella degli Sturmer sia da quella impegnata nel civile e nel politico che connotò l’esperienza del romanticismo italiano, Vittorelli è dunque uno degli ultimi esemplari della poesia epigrammatica settecentesca; e invano si cercherebbe nei suoi versi un’eco dei cambiamenti che attraversarono l’Italia negli anni della sua vita, o addirittura il rifiuto del disimpegno arcadico, con le sue donne, i suoi ospiti e le sue vedute: con i suoi versi, egli si consegna ai posteri con «un nobile ma sovrapersonale stile d’epoca in cui vive come un pesce nell’acqua»[81], ed è quindi con “l’acquario” della letteratura italiana del Settecento che bisogna rapportarsi, per comprendere al meglio il lascito del poeta bassanese.