Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

Se la Smv nella seconda metà degli anni Sessanta incontrava sempre maggiori difficoltà, l’economia locale nel suo complesso sembrò d’altra parte reagire bene alla difficile congiuntura, grazie alla flessibilità di un tessuto manifatturiero caratterizzato da attività diverse e da imprese di dimensione media e piccola, con una presenza diffusa dell’artigianato. Come mostrano i dati del censimento del 1971, la popolazione di Bassano negli anni Sessanta continuò a crescere, mentre proseguiva lo spopolamento delle frazioni che rimanevano staccate dall’abitato urbano[46]. Questa evoluzione trovava riscontro nella parallela, fortissima diminuzione degli addetti all’agricoltura, effetto inevitabile dell’apertura del mercato interno alla concorrenza internazionale nel quadro degli accordi che avevano dato vita al Mercato comune europeo, entrati in vigore nel 1959. A questo faceva riscontro una stagnazione del numero degli occupati nell’industria, effetto della crisi congiunturale della metà degli anni Sessanta, cui la maggior parte delle imprese avevano saputo resistere mantenendo stabile l’occupazione ma a scapito degli investimenti e della crescita complessiva[47]. L’espulsione di forza lavoro dall’agricoltura fu quindi compensata in parte dall’aumento degli addetti al commercio e ai servizi, che spesso nascondeva fenomeni di sottoccupazione[48], ma soprattutto da una netta diminuzione del tasso di attività, cui peraltro non corrispondeva alcun significativo aumento della disoccupazione[49]. Negli interventi presentati il 9 giugno e il 29 settembre 1968 alla Tavola rotonda sull’economia della zona bassanese, le cause di questa situazione venivano individuate, oltre che nelle persistenti difficoltà dell’industria, nel faticoso processo di adeguamento della qualificazione della manodopera alle richieste provenienti dal mondo del lavoro, che richiedeva sempre meno forza lavoro generica e sempre più personale preparato a svolgere mansioni a maggior contenuto tecnologico. Nel 1971, a quasi un decennio di distanza dall’estensione fino a quattordici anni dell’obbligo scolastico, il numero complessivo degli alunni iscritti alle scuole elementari e medie, peraltro superiore alla capienza delle aule disponibili, corrispondeva appena alla metà della popolazione in età scolare[50]. Si trattava di una situazione che caratterizzava, sia pure in misura diversa, tutti i comuni della penisola, ma che assumeva proporzioni maggiori laddove più recenti erano i fenomeni legati all’urbanizzazione di ampie fasce della popolazione. Ne conseguiva un’elevata disponibilità di manodopera non qualificata e spesso sottoccupata, utilizzabile a basso costo in settori caratterizzati da scarsa intensità tecnologica. Questo contesto costituiva il terreno ideale per lo sviluppo della piccola impresa e dell’artigianato, sviluppo spesso accompagnato da un vasto impiego informale, a domicilio o “in nero”, di forza lavoro femminile e giovanile. Alla crisi della grande industria locale, le cui vicende restavano al centro delle preoccupazioni della politica, corrispose quindi sin dalla seconda metà degli anni Sessanta l’avvio di una graduale riconversione della struttura produttiva, grazie all’espansione di alcuni settori leggeri tradizionali e alla crescita di nuove attività. Inequivocabile appare il calo in termini assoluti dei metalmeccanici, ma anche la stagnazione delle industrie alimentari e della concia, penalizzate rispettivamente dall’apertura del mercato nazionale alle importazioni provenienti da altri paesi europei e dai crescenti vincoli ambientali[51]. Parallelamente, si riscontrava un aumento del numero degli addetti alle industrie tessili e dell’abbigliamento, ai mobilifici e alla produzione di ceramiche, che compensava le difficoltà dell’edilizia: si trattava in genere di attività caratterizzate da una piccola dimensione d’impresa e da alta intensità di lavoro, ma anche da una forte capacità di collocare i propri prodotti in maniera vincente sui mercati internazionali, derivante in buona parte proprio dalla possibilità di sfruttare condizioni di costo e di impiego della manodopera più vantaggiose rispetto agli altri paesi europei e alla stessa grande impresa. A questa tipologia produttiva si affiancava peraltro lo sviluppo di altre attività, spesso non facilmente identificabili nei censimenti, che andavano dalla produzione di materie plastiche all’oreficeria, talora caratterizzate da una notevole propensione all’innovazione[52]. Per alcuni esempi, basti citare lo stabilimento Balestra di Campese, all’epoca la più grande fabbrica di catename d’oro d’Europa, o la fabbrica di riproduzioni di mobili antichi Bussandri: entrambe le aziende furono a loro volta all’origine di molteplici fenomeni di gemmazione imprenditoriale. Sul tessuto produttivo locale dei primi anni Sessanta la fine del miracolo economico aveva operato selezionando le imprese più efficienti[53], che poterono consolidarsi anche grazie alla disponibilità di manodopera specializzata formatasi all’interno della Smv. A questo processo di assestamento del tessuto industriale si affiancavano però fenomeni nuovi, che rappresentavano le prime avvisaglie di un profondo mutamento sociale. Il panorama complessivo presentava un crescente orientamento verso la diversificazione delle vocazioni produttive del territorio, la moltiplicazione delle unità produttive e la riduzione delle loro dimensioni medie[54]: alla centralità della grande fabbrica e dei suoi problemi occupazionali sempre più drammatici si contrapponeva il progressivo emergere di nuovi ceti medi, rafforzati dal proliferare delle iniziative imprenditoriali e artigianali e dalla crescita delle attività legate al commercio e ai servizi.  

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