Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

Nel contesto che si è venuto descrivendo sin qui, la Smv, sia pure affiancata da una struttura industriale che si veniva diversificando e rafforzando, continuava a costituire un riferimento stabile nel panorama economico cittadino. Le dimensioni dell’azienda avevano raggiunto e superato i 1.700 addetti nei primi anni Cinquanta. Proprio in quegli anni, tuttavia, l’azienda raggiungeva il punto di massima espansione, cui fece seguito quello che appare un lento ma inesorabile ridimensionamento del suo ruolo nel panorama produttivo locale. Nel dopoguerra, la Smv aveva superato rapidamente la crisi di riconversione e ripristinato tutta la gamma di produzione a uso civile, usufruendo degli aiuti corrisposti nel quadro del Piano Marshall per potenziare e allargare gli impianti ed espandere la fabbricazione di articoli per l’abitazione. Negli anni Cinquanta il boom dell’edilizia trainò lo sviluppo dell’azienda, che reinvestì gli utili ammodernando tecnologicamente i reparti e avviando nuove produzioni, dalle piastre convettrici ai radiatori industriali per il raffreddamento dei trasformatori, installati in numerose centrali elettriche all’estero. La morte tra 1952 e 1953 dei due manager che fin dalla fondazione avevano gestito l’azienda, Ugo Sostero e Nicolas Leszl, e nel 1960 quella del titolare Augusto Westen, fecero tuttavia coincidere il ricambio generazionale con l’accumularsi di tutta una serie di problemi e inefficienze, che divennero evidenti solo con la crisi del 1964, che il nipote del titolare Karl Hermann Westen e il nuovo amministratore delegato, Viktor Kaspar, affrontarono da una posizione indebolita. Certo le difficoltà non riguardavano solo la Smv, ma tutta la grande industria italiana, alle prese con una crisi di “piena occupazione” che imponeva un ripensamento delle strategie generali di sviluppo adottate negli anni della ricostruzione e del miracolo economico. Nel settore degli elettrodomestici e dei prodotti per la casa, l’espansione del mercato interno aveva consentito a numerose piccole aziende dell’indotto di crescere, specializzandosi in produzioni di nicchia che minacciavano la competitività di imprese “generaliste” come la Smv. In questo contesto, la strategia adottata da quest’ultima negli anni Cinquanta, tutta concentrata sugli aumenti di produttività consentiti dalle economie di scala e dall’introduzione di nuove tecnologie, finì per dimostrarsi miope. Nel corso del decennio il numero dei dipendenti della grande fabbrica calava di più di un centinaio di unità, in seguito a una lunga stasi nelle assunzioni, dovuta anche allo sforzo di meccanizzazione e razionalizzazione posto in atto dall’azienda nel tentativo di contenere i costi di fronte alla sempre più agguerrita concorrenza di nuove piccole e medie imprese specializzate nella produzione di elettrodomestici[43]. La forte crescita della domanda negli anni del miracolo economico consentì nei primi anni Sessanta un’effimera ripresa dei livelli occupazionali anche alla Smv, che tuttavia a partire dalla crisi congiunturale del 1963-1964 smise nuovamente di reclutare nuova manodopera, anche in risposta agli aumenti salariali ottenuti dagli operai in seguito alla firma di un accordo che collegava, attraverso lo strumento del premio di produzione, gli aumenti retributivi alla produttività, in forte crescita grazie agli investimenti effettuati dall’azienda. È in primo luogo il calo dei dipendenti della Smv che spiega la riduzione dell’importanza del settore meccanico che si rileva a Bassano negli anni Sessanta, al contrario di quanto stava avvenendo nel resto della provincia. Di fatto, la crisi della prima metà degli anni Sessanta segna l’avvio di una profonda trasformazione economica della realtà bassanese, che toccherà il culmine alla metà del decennio successivo, con l’improvvisa chiusura della Smv. A partire dal 1964, la direzione dell’azienda inizia a parlare esplicitamente di licenziamenti, a lungo scongiurati grazie all’opposizione del sindacato e agli interventi di mediazione politica posti in atto dall’amministrazione comunale[44]. La crisi del 1964 impose infatti una svolta nella strategia aziendale, che trovò espressione nella scelta di investire soprattutto nella rete commerciale, dando nel 1965 carattere autonomo alla Commerciale Smv e puntando all’abbattimento dei costi di distribuzione. Negli anni successivi, tuttavia, la concorrenza internazionale e sul mercato interno si fece insostenibile, in particolare nel settore delle stoviglie. Nonostante la completa meccanizzazione del reparto, le pentole della Smv non riuscivano a competere con la produzione proveniente dalla Jugoslavia e dalla Polonia, dove i costi della materia prima e del lavoro erano decisamente più bassi. A questo si aggiungeva la vendita sottocosto, da parte di aziende a partecipazione statale, di articoli simili a quelli prodotti dalla Smv, che sottraevano in tal modo ulteriori quote di mercato. Alla sua morte, nel 1967, Kaspar lasciava dunque l’azienda in una situazione tutt’altro che rosea. Karl Hermann Westen decideva allora di delocalizzare la produzione, fondando nella Spagna franchista lo stabilimento Ibelsa, una fabbrica per la produzione di vasche da bagno, che utilizzava stampi e tecnici provenienti da Bassano. Qui invece nominava consigliere delegato Amedeo Cuminatti, un manager che già alla Pellizzari di Arzignano aveva dato prova della capacità di avviare un processo di ristrutturazione doloroso imponendo forti sacrifici occupazionali. Alla Smv, nel tentativo di invertire una tendenza negativa nelle vendite che aveva prodotto forti ricadute sul bilancio aziendale, Cuminatti decise la completa chiusura del reparto stoviglie, proponendo nel gennaio del 1968 ai sindacati il licenziamento di una cinquantina di dipendenti, in gran parte donne, e la sospensione a zero ore di altri ottanta. Ne seguì un durissimo scontro con i lavoratori, che si concluse solo grazie alla mediazione politica del sindaco Pietro Fabris. In cambio del mantenimento dei livelli occupazionali, questi si offrì di intervenire attraverso il segretario nazionale della Dc, Mariano Rumor, presso il governo, ottenendo per l’azienda il pagamento anticipato degli indennizzi per i danni subiti nel nubifragio del 1966 e per la nazionalizzazione, avvenuta nel 1963, della centrale elettrica di Campolongo, nonché un prestito Imi agevolato di un miliardo di lire, utilizzato per costruire una nuova catena di montaggio per radiatori. La gestione della manodopera nella grande fabbrica diveniva in tal modo un problema innanzitutto politico e istituzionale, in qualche modo sottratto alle scelte imprenditoriali. Le conseguenze di questa situazione divennero evidenti soltanto nel decennio successivo: di fronte alla prospettiva di continuare a operare in una situazione oggettivamente in perdita, sia pure compensata da tutta una serie di estemporanee agevolazioni orchestrate per salvaguardare l’occupazione, la famiglia Westen iniziò a preparare il terreno per un disimpegno, trasferendo gradualmente all’estero i capitali e la titolarità effettiva delle azioni dell’azienda[45]

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