Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

Esaminare la storia di un istituto culturale significa ripercorrere la complessità della sua formazione, cioè ripercorrere le ragioni culturali ed artistiche che lo fecero nascere, le decisioni che hanno portato alla collocazione delle raccolte e di conseguenza le vicende storiche e politiche che hanno presieduto o assistito a tali decisioni. Musei e biblioteche partecipano entrambi, forse in modo diverso, ma entrambi, alle trasformazioni della storia e del pensiero. Il Museo Civico riflette la società che l’ha prodotto e nella quale vive. Inizialmente è stato un ventre che ha accumulato e collocato tassonomicamente tutte le branchie del sapere del piccolo mondo al quale faceva riferimento. Ambiente naturale, ambiente umano, testimonianze storiche e testimonianze archeologiche, testimonianze artistiche rappresentavano l’unità dell’esistente che il Museo Civico aveva il compito di tramandare. Mutata è la concezione dell’istituto museale a partire dagli anni ’70 del Novecento e l’attenzione si è spostata dalla conservazione ed accrescimento delle raccolte, sulla loro valorizzazione ma soprattutto su politiche che rivolgono l’attenzione all’utenza. Le vicende relative alla nascita ed alle raccolte dell’Istituto culturale bassanese sono state oggetto negli ultimi vent’anni di interventi generali ed in dettaglio. Le ricerche di Brentari, Tua, Passamani, Magagnato, Berti, Marini, Del Sal, Bonato e della scrivente dal 1881 al 2010[1], hanno ripercorso la formazione del museo a partire dal legato del naturalista Giambattista Brocchi del 1828, il passaggio degli ambienti del convento di San Francesco dall’Ospedale alla Municipalità, e l’apertura al pubblico forse nel gennaio 1841, in occasione della festività patronale di San Bassiano, delle sale del convento di San Francesco, ove il museo e la biblioteca affiancavano il Ginnasio e il Liceo Convitto, come ricorda la lapide ancora infissa nel cortile interno della sezione archeologica bassanese (fig.1).

1Veduta

1. Veduta del chiostro della chiesa di San Francesco, entrata del Museo Biblioteca Archivio. Nell’aprile del 1838 il Consiglio Comunale deliberò l’acquisto dello stabile dell’ex convento di San Francesco per collocarvi la Pinacoteca municipale e la Biblioteca Brocchi.

Negli stessi ambienti, ad ulteriore suggello della destinazione culturale del polo del convento di San Francesco, vi aveva trovato posto già nel 1810 la Scuola di Elementi di Disegno, di Figura e di Ornato[2], che evidentemente si sarebbe servita dei materiali del museo come exempla di virtù civica ma anche come modelli operativi. Erano afferiti nella nuova struttura i dipinti provenienti dalle demanializzazioni veneziane di secondo Settecento, San Francesco (1796) e Santa Caterina (1785) e da quelle napoleoniche del 1805 (convento dei Cappuccini, convento di San Girolamo, chiesa di San Fortunato) e dagli edifici comunali per un totale di 28 tra tele e tavole, parzialmente esposti nella sala di ricevimento del Sindaco nella sede municipale di via Matteotti nel 1825[3] con lo scopo preciso di sensibilizzare l’opinione pubblica della città sul patrimonio dei dipinti provenienti dalle chiese e dai conventi della città e sul patrimonio dei palazzi pubblici in funzione dell’apertura di quella Pinacoteca civica, già delineata da Verci nel 1775[4], che avrebbe integrato il lascito di Gian Battista Brocchi, disposto già tre anni prima, prima della sua partenza per l’Egitto. Da questo primo nucleo pervennero in Museo buona parte delle opere dei Bassano, in particolare Francesco il Vecchio, Jacopo e Leandro. Per i grandi capolavori di Jacopo si è da quel momento costituita, con poche aggiunte successive, quali Il martirio di santa Caterina, acquisito da Magagnato nel 1957, la più grande raccolta al mondo in un solo museo di uno dei protagonisti del Rinascimento italiano (tav. 12). Il primo nome dell’istituto, riportato nella lapide (fig.2)

2lapide

2. Lapide. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, cortile interno. La lapide ricorda che il museo e la biblioteca, al primo piano, affiancavano il Ginnasio- Convitto al piano terra.

e nell’incarico del suo primo Direttore Giambattista Baseggio era Biblioteca e Pinacoteca Comunali e Civica Biblioteca e Pinacoteca ed in questo si apparentava con una buona parte dei musei civici dell’Ottocento in Italia. Sin dalla sua apertura al pubblico nella definizione nominale spariva la memoria delle importanti raccolte naturalistiche che, insieme al primo nucleo librario di 1640 volumi, erano state oggetto del legato del fondatore Giambattista Brocchi e che avevano connotato il suo testamento come esito ultimo di un sentire ancora illuminista che nella gerarchia dei saperi univa i naturalia con gli artificialia. In tale repentino cambiamento di gusto museografico il nuovo museo di Bassano subiva le sorti delle collezioni naturalistiche spagnole originariamente (1784) destinate al Prado o quello più tardo del Museo Civico di Bologna, insediato nel 1881 in Palazzo Gualandi senza le collezioni tardo-cinquecentesche di Cospi e Aldrovandi. Le prime donazioni per la nuova struttura sono ricordate nell’articolo del 25 gennaio 1841, della «Gazzetta privilegiata di Venezia» che aveva annunciato l’apertura del nuovo Museo. Vi si ricordavano, quali benemeriti, Gian Battista Roberti, don Luigi Colbacchini, Domenico Pellegrini, Antonio Bosa e Giannantonio Moschini, donatori di piccoli e grandi capolavori, la raccolta di manoscritti e volumi a stampa di soggetto bassanese, il busto in bronzo di Lazzaro Bonamigo di Girolamo Compagna, la mappa dalpontiana, l’autoritratto di Giambattista Volpato[5], e il ritratto oggi riferito a Vincenzo Catena[6](fig.3).

3VincenzodiBiagio

3. Vincenzo di Biagio Catena, Ritratto di Giovanni Novello (1515 ca.). Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, inv. 99. Il bel ritratto, che sappiamo essere stato eseguito da Vincenzo Catena per il medico bassanese Giovanni Novello, è un dono alla Città di Giannantonio Moschini, connoisseur veneziano.

Ad integrazione della donazione fondativa del Museo pervennero da Domenico Brocchi la corrispondenza del fratello Giambattista Brocchi e più di mille volumi. La stretta integrazione tra Biblioteca e Museo si conferma in quello che diventa a partire dalla fine di quel decennio l’assetto ottocentesco del Museo quale emerge da due immagini di primo Novecento dei due saloni superiori (figg.4-5).

4Salonesud

4. Salone sud della Pinacoteca (attuale salone canoviano), inizi XX secolo, Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, Archivio Fotografico. La fotografia documenta l’assetto dei saloni nei primi decenni del Novecento con il modello in gesso canoviano del cavallo per il monumento a Carlo III di Borbone.

5Salonenord

5. Salone nord della Pinacoteca (attuale salone dalpontiano), inizi XX secolo, Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, Archivio Fotografico. La fotografia documenta l’assetto dei saloni nei primi decenni del Novecento con il modello in gesso canoviano del cavallo per il monumento a Ferdinando II di Borbone.

Già il 9 gennaio 1840 l’ingegnere comunale Giuseppe Gaidon[7] firma il progetto degli armadi (fig.6)

6Salonenord

6. Salone nord della Pinacoteca (attuale salone dalpontiano), fine XIX secolo, Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, Archivio Fotografico. La fotografia documenta l’assetto dei saloni subito dopo la metà dell’Ottocento con gli armadi che ospitavano la Biblioteca.

che occupano tutta la parte inferiore dei due saloni sopra i quali erano esposti i dipinti nel salone Verci, e più tardi i busti nel salone Canova, realizzati dal falegname Giovanni Maria Bordignoni, risultato vincitore di una pubblica gara bandita nel dicembre 1846. Contemporaneamente le collezioni museali continuavano ad incrementarsi grazie a lasciti cittadini. Donava al Museo la propria collezione Pietro Stecchini[8], (fig.7)

7Lapide

7. Lapide dedicatoria a Pietro Stecchini, 1849. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, ottagono superiore. La lapide attesta il dono della raccolta numismatica alla Biblioteca della città.

nipote acquisito di Antonio Canova, capitano della guardia civica del governo in carica nel 1848, che vide la classe dirigente “illuminata” di ispirazione cattolica e liberale dirigere il moto di rivolta promossa da un governo perlopiù di estrazione borghese, attento a mantenere l’ordine interno. La consistenza del suo legato, entrato in Museo dopo il 29 novembre 1849, data di approvazione del lascito da parte del Consiglio Comunale[9], appare nel codicillo del suo testamento dell’11 novembre 1844[10] e comprende una consistente collezione numismatica, ed alcuni dipinti, tra i quali due paesaggi di Voogdt e di Bassi e un numero non specificato di monocromi di Antonio Canova[11]. I monocromi canoviani e probabilmente anche i dipinti non eseguiti dall’artista di Possagno, erano pervenuti allo Stecchini nel 1837 - quando egli stesso ne accenna entusiasticamente in una lettera a Francesco Testa[12] - per il tramite di Giambattista Sartori Canova. Nel gennaio 1821 aveva sposato la nipote Antonietta Bianchi, alla quale l’erede universale dell’artista li aveva donati, insieme al Ritratto di Antonio Canova, eseguito da Lawrence e da Stecchini lasciato a Giambattista Sartori Canova e da questi alla casa natale dell’artista[13]. I due paesaggi rappresentano due saggi importanti dell’interesse di Canova nei confronti della pittura di paesaggio praticata a Roma nel primo decennio dell’Ottocento in particolare da pittori nordici, ma non solo, sulla scia della grande lezione del classicismo di Poussin e Lorrain ma già attenti alla luce dell’esperienza purista[14]. I monocromi invece rappresentano il primo saggio di pittura canoviana pervenuta in Museo. Non potendo distinguere la loro provenienza, ne tratteremo congiuntamente a quelli di provenienza Sartori Canova. «Per secondare anche il desiderio del mio buon genitore lascio la collezione di stampe, comprese anche quelle in Cornice alla mia diletta Patria, acciò codesta collezione venga custodita nella pubblica Biblioteca». In questi termini, il 26 luglio 1849, poco prima di morire, Giambattista Remondini disponeva con atto formale le sue ultime volontà e donava la collezione che il padre Antonio aveva accuratamente collocato su cartoni blu, divisi per scuole, seguendo, secondo la prassi collezionistica di fine Settecento, le informazioni di De Heinecken[15], di Gori-Gandellini e del Bartsch[16], espressamente citati nelle note manoscritte a lato dei fogli incollati, lasciando a noi la certezza che quanto passava nelle raccolte del Museo, 8522 incisioni in 81 cartelle divise tra stampe fini di collezione (da Dürer a Tiepolo) e stampe popolari prodotte dalla fine del Seicento ai primi dell’Ottocento, era frutto della cultura imprenditoriale e illuminista del padre[17]. La dichiarazione di amore nei confronti della propria città si ammanta di un valore nazionale, «diletta Patria», in un misto di provinciale separatismo, qual’era peraltro quello che caratterizzava in quel momento storico la nobiltà e la piccola imprenditoria locale, della quale Remondini faceva parte, e di appartenenza identitaria già ammantata di valori risorgimentali. Il lascito costituiva l’ultimo atto di un legame che aveva unito, anche per motivi familiari, l’amministratore-bibliotecario “onorario” Giambattista Baseggio, che allora dirigeva l’istituto civico, con l’ultimo discendente della dinastia naturalizzata bassanese, legame evidentemente nutrito dalle pubblicazioni curate e pubblicate dallo stesso Baseggio in quegli anni, Intorno tre celebri intagliatori in legno vicentini, del 1839 e Della Calcografia in Bassano e dei calcografi bassanesi del 1847[18]. Il disposto testamentario fu immediatamente valutato nella sua importanza dall’Amministrazione Comunale di Bassano. Già il 23 agosto del 1849, il podestà Giuseppe Bombardini scriveva al Baseggio, ricordando la morte del conte, il 3 di quello stesso mese, e lo incaricava di contattare gli eredi, di preparare l’elenco delle opere donate con il rispettivo valore e di predisporre le pratiche per la formale accettazione. Mentre il bibliotecario procedeva nell’inventario delle stampe che avrebbe presentato all’Amministrazione il successivo 7 gennaio 1850, il 4 settembre 1849 venivano liquidate le spese per due lapidi dedicate ai donatori Stecchini e Remondini. L’aulica, e nel contempo affettuosa, iscrizione[19](fig.8),

8Lapide

8. Lapide dedicatoria a Giambattista Remondini, 1849. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, ottagono superiore.

ora collocata nell’ottagono superiore del Museo, sotto il busto fatto eseguire da Giovanni Fusaro (fig.9),

9GiovanniFusaro

9. Giovanni Fusaro, Busto di Giambattista Remondini, 1849 ca. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, ottagono superiore, inv. S103. Il Comune dedicava al Remondini la lapide ed il busto per esprimere la riconoscenza per il lascito della collezione di stampe alla Città, alla sua morte nel 1849.

ed evidentemente scritta dallo stesso Baseggio, suggella la riconoscenza pubblica nei confronti del grande donatore. Da quel momento l’impegno di Baseggio è nella collocazione museografica dei materiali donati, libri, corrispondenza, stampe popolari, carte decorate, xilografie e acqueforti della preziosa collezione storica. Il successivo 9 ottobre venivano, infatti, liquidate le spese «per fare una sala nella Pinacoteca onde mostrarvi la collezione delle stampe Remondini»[20]. Come fossero sistemate le stampe remondiniane e quale fosse la «saletta» predisposta «onde custodirvi la preziosa e rara collezione di stampe», lo apprendiamo dalla successiva relazione agli atti, redatta dal Baseggio e firmata dal podestà Bombardini in data 4 febbraio 1852, confermata dalla pianta pubblicata a fine Ottocento dal Brentari (fig.10)[21].

10PiantaCivicoMuseo

10. Pianta del Civico Museo di Bassano, in O. Brentari, Il Museo di Bassano illustrato, Bassano, Pozzato 1881, p. 34. La pianta attesta la distribuzione delle collezioni negli ambienti intorno ai tre saloni a croce del piano nobile.

La relazione descrive il primo piano del convento di San Francesco dove era allora collocata la civica Biblioteca ed introduce agli allestimenti intorno ai due saloni, identificabili con le attuali sezioni dalpontiana, a fine Ottocento sala del Cavallo, e della pittura del Seicento e del Settecento, allora sala Brocchi. Tutta la collezione degli incisori bassanesi formatosi nella calcografia remondiniana era esposta in questa prima sala, mentre la collezione storica di acqueforti, bulini e xilografie dal XV al XVIII secolo, che costituiscono una delle raccolte grafiche di arte antica più importanti dell’Italia settentrionale, erano collocate anch’esse, incorniciate, nella sala parallela, attuale corridoio del Chiostro. Più complessa è la storia e la consistenza del lascito di Giambattista Sartori Canova. La collezione canoviana costituisce uno dei vanti del Museo di Bassano. La sua formazione, con i lasciti di Pietro Stecchini e Giambattista Sartori Canova, fratellastro del grande artista, è nota ed è stata anche recentemente puntualizzata in ordine alle dinamiche ed ai tempi[22]. Le vicende relative al trasferimento del patrimonio canoviano da Roma a Possagno ed a Bassano sono collocabili tra la fine del 1849 ed il 1858, con una prima sistemazione nel salone meridionale del Museo in relazione con la sua dedicazione al Sartori Canova nel 1853[23]. Non mi soffermerò più di tanto su questa donazione, della quale è stato peraltro scritto[24], se non per sottolineare alcuni aspetti di modernità rispetto anche alle donazioni bassanesi che l’avevano preceduta, il fatto di trattarsi dell’intera vita dell’artista nelle sue manifestazioni più intime e personali, la corrispondenza, gli appunti manoscritti, i monocromi utilizzati quasi sempre come canovaccio di disegno, i modelli in terracotta ed in gesso, divisi tra tre località che erano parte integrante del vissuto più personale dell’artista, quelle che lo avevano visto figlio e non famoso artista, Possagno, Crespano e Bassano. Le motivazioni di tale divisione sono espressamente indicate da Giambattista «…La Regia Città di Bassano ove aveva avuto luogo l’amministrazione dei suoi beni ad opera di Tiberio Roberti: (..) Regia Città .. per il suo distinto affetto per il grande artista, alle sue opere ed in generale alle arti, possedendo essa pure opere e raccolte distintissime, e preziosi documenti canoviani…»[25]. Il legato faceva riferimento anche alla costruzione a spese dell’Amministrazione bassanese, con una colletta pubblica, del terzo salone del Museo, che avrebbe ospitato la donazione e ciò risponde anch’esso ad una moderna volontà di costruire il luogo della memoria, questa volta nell’esaltazione dell’uomo e dell’artista e pare riferirsi più allo spirito di Sartori Canova che a quello del  grande scultore, uno spirito non difforme da quello del Museo Thorvaldsen,  già intriso di forte individualismo romantico[26]. Non si conosce ancora il legame tra il lascito dello Stecchini e le decisioni di Sartori Canova, contigui sia ambientalmente che cronologicamente. Il testamento di Giambattista Sartori Canova, dettato nella casa di Venezia in data 28 febbraio 1858, davanti al notaio Angelo Pasini fu Giuseppe e registrato dal «Segretario di Governo» Renato Arrigoni di Valdobbiadene il 28 luglio 1858[27] definisce infatti solo il termine ante quem dell’intera operazione di accumulo delle memoria canoviane nel giovane Museo bassanese che avrebbe costituito il più grande patrimonio documentario dell’artista esistente al mondo in una collezione pubblica. Già in data 12 febbraio 1850, infatti, Giambattista Baseggio, allora Bibliotecario Comunale, comunicava al Municipio che al centro dei saloni della biblioteca erano stati posizionati i due grandi modelli in gesso di Antonio Canova dei monumenti a cavallo di Carlo III e Ferdinando III di Borbone (figg.4-6) e che questo munifico dono di Giambattista Sartori Canova era accompagnato da importanti volumi di numismatica ed araldica. La risposta del podestà Bombardini, «grazie per questo nuovo dono…della sua magnanimità» fa pensare che una parte del patrimonio canoviano fosse già pervenuto nelle raccolte bassanesi. Tale ipotesi è confermata dalla richiesta in data 1 dicembre 1849 di due cittadini, GioBatta Chemin e Giovanni Freschi di raccogliere i mezzi per una terza sala «uguale e di fronte alla seconda» per ospitare i legati Stecchini e Remondini e «li continui preziosi donativi che vengono fatti dal generoso Vescovo Monsignor Sartori Canova a questo patrio Museo»[28]. Nel rispondere in data 12 dicembre ai due cittadini il podestà Bombardini segnalava che la Municipalità desiderava che la sala fosse dedicata a monsignor Sartori Canova e invitava l’ingegnere «d’Ufficio», che noi sappiamo essere Giovan Battista Bricito, a predisporre il progetto[29]. Nel 1850 l’archivio ci documenta un lunghissimo elenco di sottoscrittori, tra i quali si segnalano per generosità il podestà stesso, Angelo e Giambattista Chemin, Rocco Cantele, Ottaviano Angarani Porto, Antonio Negri, Alberto Parolini e Ioseffa Remondini, con importi da 300 lire austriache in su. Nel giugno dello stesso anno, due preventivi di spesa del falegname Bordignon, che aveva già eseguito tutto il mobilio dei saloni[30], e del finestraio Cattaruzzi per un «lavoro di finestrato»[31], attestano un avanzato stato dei lavori. Conferma della presenza, forse già dal 1849, dei disegni nelle raccolte bassanesi è la verifica effettuata a partire da quell’anno dal Baseggio e attestata in data 6 settembre 1850 ed in data 15 marzo 1851 direttamente sugli Albums canoviani (fig.11).

11GiambattistaBaseggio

11. Giambattista Baseggio, Attestazione di autenticità, in Antonio Canova, Paesaggio, Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, Disegni canoviani, F7-34.1722 verso. L’allora bibliotecario attesta l’autenticità dei disegni canoviani già del settembre 1850, documentando la data della consegna al Museo della collezione da parte di monsignor Sartori Canova.

Il 14 settembre dell’anno successivo, il podestà Bombardini, l’assessore Baseggio ed il Segretario Merlo, facendosi evidentemente portavoci di una disposizione della Municipalità, fanno cenno a Giambattista Sartori Canova circa doni già pervenuti e quelli dei quali «continuamente arricchisce questo Museo Civico» e gli comunicano ufficialmente la disposizione consiliare del 2 agosto di quell’anno 1851 di nominarlo Cittadino onorario della Città e di far eseguire un busto da Pietro Tenerani con la sua effigie, da collocarsi nella nuova ala del Museo.[32](fig.12).

 12GianBattistaBricito

12. Gian Battista Bricito, Progetto per la Sala Chilesotti ed il Salone canoviano (1849-1850). Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, Mappe, n. 37. Il salone, costruito per volontà e con denari dei Bassanesi, per ospitare il lascito Sartori Canova compare in questo progetto finora inedito, redatto dall'ingegnere comunale.

Il busto (fig.13)

13PietroTenerani

13. Pietro Tenerani, Busto di Giambattista Sartori Canova, firmato e datato 1853. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, inv. 5685. Il busto fu commissionato dal Consiglio Comunale della Città di Bassano, che lo nomina cittadino onorario. 

sarà eseguito in Roma per il tramite del signor Pietro Re, amministratore romano del Sartori, e pagato 1642.16 scudi. L’intero importo, comprensivo della mediazione del Re, dell’imballo e della spedizione assommerà a 1904.21 scudi[33]. Agli inizi del 1852, il 4 febbraio, Giambattista Baseggio risulta estensore di un lungo elenco, in ordine alfabetico, di legati e donazioni pervenuti fino a quell’anno al Museo ed alla Biblioteca ed al nome di «Sartori Canova Monsignor G.Batta Vescovo di Mindo ecc. ecc.» elenca[34] «Un Paese del Vestappen[35](fig.14):

14MartinVerstappen

14. Martin Verstappen, Paesaggio con fiume ed armenti. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, inv. 362. Il dipinto proviene dalla collezione canoviana ed attesta la predilezione dell’artista per i paesaggi “classicisti” di fine Settecento.

un quadro di Angelica Kaufmann[36] e tre del Mengs[37] oltre altre pitture pregevoli[38]: il Modello della Statua equestre di Carlo III di Napoli, ed altro Modello di un cavallo, operati dal Canova[39]: il Corpo Diplomatico del Durard, ventisette volumi in foglio[40]: Le Antichità del Grovio e Gronovio, ventitre volumi in foglio[41]: il Lessico del Pitisco[42]: le Antichità italiche del Muratori[[43]]: le Iscrizioni del Gruterio dieci volumi in folio[[44]]; sessanta Volumi in quarto o foglio di opere insigni di Numismatica: ventiquattro Volumi autografi di epistolare corrispondenza dell’immortale Canova[45](fig.14):

14AntonioCanova

14.  Antonio Canova, Conversazione tra Antonio Canova e Napoleone, 1810. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, ms. 6086, f. 1r. Il nucleo più consistente della donazione Sartori Canova è rappresentata dagli scritti di Antonio Canova.

tutte le Memorie autografe dello stesso[46]: Le originali Commissioni a lui dirette[47]: tutti i suoi disegni, raccolta unica e stupenda[48]: i suoi Diplomi[49]: i suoi Ordigni[50]: e vari Modelletti [51]» (fig.15).

15AntonioCanova

15. Antonio Canova, Maddalena penitente (1808). Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, inv. S106. Il “modelletto”, lascito Sartori Canova, costituisce la prima idea tridimensionale per la scultura ora al Museo di Sant’Agostino a Genova.

Una sintesi, schematica, di un enorme patrimonio, che non riassume tuttavia l’intera donazione ora presente in Museo. Con un atto del 9 maggio 1852[52], inviato alla Municipalità di Bassano per il tramite del bibliotecario Baseggio con una nota del giorno successivo, Sartori Canova dispone infatti il lascito a Bassano di quattro statue in gesso, dei busti e delle Erme di Canova, oltre ai monocromi («tele a due colori»)[53] che fino ad allora si trovavano nel suo studio di Possagno (tav.14). Nella stessa nota ribadisce l’inalienabilità della proprietà del Comune ed il «perpetuo beneficio pubblico». Il salone a lui dedicato era in fase di completamento mentre le scaffalature in legno del falegname Bordignon, sopra le quali dovranno essere collocati i busti e le erme («per ornamento dei nuovi scaffali») non erano ancora collocati («spero saranno sollecitamente allestiti»). Le parole del prelato suggeriscono che i lavori bassanesi fossero da lui seguiti passo passo e che alcuni dei doni disposti nel 1852 siano la diretta conseguenza dell’impegno della città nella costruzione di un nuovo salone che potesse ospitare i numerosi doni che affluivano nel giovane museo. Alle lettere del 1852 è allegato un consistente inventario, in ordine alfabetico, dei volumi canoviani «di belle Arti», destinati alla Biblioteca di Bassano, inventario, che sarà integrato fino all’ottobre 1857, data nella quale presumibilmente avvenne l’effettiva traslazione[54]. Si può senz’altro affermare che la scelta di Sartori Canova di dividere il nucleo più consistente del patrimonio canoviano tra Bassano e Possagno avvenne secondo una logica precisa ed evidentemente ponderata: le opere ora bassanesi del grande scultore ne rappresentano tutte il momento della progettualità e dell’ideazione, e sono quindi i disegni, i monocromi, i bozzetti ed i modelli, nonchè gli scritti, i saggi e la corrispondenza che costituiscono il documento scritto dell’esecuzione delle opere stesse e ne attestano i modi e i tempi dell’ideazione e dell’esecuzione. Gli albums e i taccuini di disegni di Canova, rispettivamente 10 ed 8 dei quali, contenenti più di 1876 disegni (fig.16),

16Albumsetaccuini

16. Albums e taccuini della collezione dei disegni canoviani del Museo. Dieci albums e otto taccuini raccolgono più di 1876 disegni di Antonio Canova e costituiscono una parte importante del lascito Sartori Canova.

sul totale di venti rimasti[55], conservati a Bassano, costituiscono un patrimonio ineguagliabile per sondare le idee dell’artista «nel momento in cui si formano»[56]. Canova «solea gittare in carta il suo pensiero con pochi e semplicissimi tratti, che più volte ritoccava e modificava»: nelle parole di Cicognara[57] si misura l’urgenza della trasposizione del pensiero e dell’immagine sulla carta e la funzione personale e segreta di questi segni, indice di una modernità esistenziale e di prassi esecutiva che continuamente crea sorpresa e meraviglia in chi vi si accosta. «Pensieri delineati a lapis», la sintetica ma efficace descrizione dei disegni dell’illustre fratello da parte di Giambattista Sartori, erede universale dell’artista e donatore del suo patrimonio grafico alla Biblioteca di Bassano, interpreta i tratti canoviani come la prima fase dell’“invenzione” e consente di seguire attraverso la loro lettura tutte le fasi della nascita delle opere. L’attuale classificazione, decisa nel 1923 dall’allora direttore e bibliotecario del Museo, Paolo Maria Tua, assegna a ciascun album e taccuino una lettera maiuscola, dalla A alla F, accompagnate in alcuni casi da un numero e da una lettera maiuscola, dalla a alla f, che individua, secondo l’idea di Tua, un’omogeneità tra i taccuini, per soggetto o per tematica. Un vistoso e disturbante timbro di proprietà reca anche la segnatura progressiva del foglio (fig.17),

17AntonioCanova

17. Antonio Canova, Due schizzi per Le Grazie (1812) (part.). Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, Disegni canoviani, F3 65.1574. Un vistoso e disturbante timbro di proprietà e di inventario è in tutti i fogli canoviani.

ma non segnala eventuali schizzi o disegni sul verso del foglio stesso. Di conseguenza il numero progressivo non segnala l’esatta consistenza del foglio[58]. Mentre i taccuini non rivelano una sequenzialità programmata di esecuzione, gli albums sembrano composti in maniera unitaria e programmatica. La similarità dei dorsi dei primi sei albums ma soprattutto la presenza di correzioni trasbordanti il foglietto incollato sul foglio di supporto conferma l’opinione che il criterio museografico della raccolta fosse stato impostato da Antonio Canova e continuato da un suo amico o seguace o erede non ancora identificato. Risulta particolarmente interessante nella valutazione del carattere del lascito canoviano al Museo di Bassano il fatto che nell’Ottocento, nell’inventario della loro primitiva collocazione nei saloni, i monocromi dell’artista, realizzati con pochi tratti di biacca e segni di colore nero e crema sulla tela grezza o su una base bianca (fig.18),

18AntonioCanova

18. Antonio Canova, Le Tre Grazie con un amorino. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, inv. M13. I monocromi sono realizzati su tela grezza con poca preparazione e pochi segni di contorno, illuminati con biacca.

fossero stati registrati come «disegni», e che così siano ricordati anche dal Brentari nella prima guida del Museo del 1881[59]. E’ noto, altresì, che il risarcimento critico di questa parte della produzione di Canova è recente, risale agli anni ’50 del Novecento, ed ha aperto la strada anche a nuovi approfondimenti sulla genesi dell’ “ideazione” nel processo creativo di Canova. La funzione dei monocromi, infatti, è stata riconosciuta, anche per la presenza della quadrettatura del fondo in alcuni di essi (fig.19),

19AntonioCanova

19. Antonio Canova, Le Tre Grazie con un amorino (part.). Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio. La funzione dei monocromi, anche per la quadrettatura, è riconosciuta come modello per successive realizzazioni.

come modelli per successive realizzazioni in gesso e/o in marmo. Circa la loro valenza estetica vale quanto Pavanello richiama nel sottolineare il fascino che ne deriva, cioè «quel rapporto dialettico fra la povertà della materia e la splendida circoncisione della forma, che si cristallizza in linea di energia luce»[60]. L’uso della biacca su uno strato sottilissimo di preparazione «tende ad ottenere risalti e stacchi di luce ed ombra, effetti di materia quasi tattile, così da evocare e studiare i risultati del bassorilievo»[61]. Un settore di un certo interesse, se pur inferiore a Possagno, del patrimonio canoviano di Bassano sono i modelletti, La Maddalena[62], preparatorio per la statua in marmo di pari soggetto eseguita per il Salon del 1808, per volontà di Giovanni Battista Sommariva, i modelli in gesso del Monumento funerario all’amico di Frank Newton[63], quello relativo alla Monumento funerario di Vittorio Alfieri[64] e quello per il Monumento funerario di Orazio Nelson[65](fig.20).

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20. Antonio Canova, Monumento funerario all’amico di Frank Newton (1794). Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, inv. S75. Modello di un monumento mai realizzato nel quale Canova utilizza due elementi, il sarcofago e la piramide, che costituiranno una costante in questa tipologia.

Sono proprio questi ultimi a costituire un insieme interessante per le numerose varianti canoviane sul tema. Il primo, progettato nel 1794, al quale non seguì l’esecuzione dell’opera, mette in scena due elementi fondamentali per le scelte simboliche ed ideative dei monumenti funerari canoviani, il sepolcro e la piramide. Il non risolto problema, qui, del rapporto tra i due elementi conferma il ruolo privato che Canova riservava ai modelli, nella quasi totalità conservati fino alla sua morte nello studio romano. Significativo in questo senso è anche il primo modello per il Monumento funerario di Vittorio Alfieri, concentrato nella versione bassanese, sulla figura piangente dell’Italia appoggiata al sepolcro in modi non dissimili dai grandi monocromi a soggetto funerario (fig.21).

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21. Antonio Canova, Monumento funerario di Vittorio Alfieri (1804). Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, inv. S76. Prima idea per il monumento al grande letterato piemontese per la Basilica di Santa Croce a Firenze.

Ed è proprio questa figura che venne individuata dalla critica sin dalla sua collocazione come il fulcro dell’invenzione canoviana[66]. La figura, com’è noto, ispirò a Giuseppe Mazzini[67] la sua concezione dell’arte, «una donna che io conosco prosternata dinanzi alle tombe a Santa Croce, dimentica del tempo e dei luoghi, che innalza la sua voce nel tempio che conserva le nostre glorie, che protesta in nome del passato per l’abiezione presente». Una lettura incentrata sulla «grande e maestosa» scultura dell’Italia, risponde alle intenzioni canoviane di approfondire il rapporto tra Alfieri e la Patria Italia ma nulla aggiunge, meno che mai nulla di eversivo, rispetto alle note posizioni politiche di Canova. Rientra nella categoria dei bozzetti preparatori anche la terracotta de Le Grazie(fig.22),

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22. Antonio Canova, Le Tre Grazie, modello in terracotta (1812). Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, inv. S268. Il modello acquistato dalla Città nel 2004,  costituisce il primo modello per il gruppo in marmo, commissionato da Joséphine Beauharneais.

che non fa parte della donazione originaria ma è stata acquistata dal Comune di Bassano del Grappa per prelazione esercitata dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali nel settembre 2003[68]. Il bozzetto fu realizzato da Canova tra l’estate e l’autunno del 1812 su richiesta dell’Imperatrice Giuseppina Beauharnais, che in data 11 giugno aveva ordinato all’artista un gruppo scultoreo dal soggetto prezioso e raffinato de Le Grazie. Pur evidenziando la difficoltà di rappresentare un gruppo di tre figure che dovevano essere viste da tutti i lati e l’assenza di una scultura antica che potesse servire da guida sia iconografica che stilistica, Canova realizzava in una data anteriore al 16 di ottobre alcuni disegni, due dei quali conservati nelle raccolte del Museo di Bassano (inv. F5.25.1648; inv. F3.65.1574) (fig.23)

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23. Antonio Canova, Le Tre Grazie, disegno (1812). Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio. Disegni Canoviani, F3 65-1574. Il disegno costituisce una delle redazioni progettuali del grande marmo russo.

e «un petit esquisse de terre», la prima idea tridimensionale del gruppo, il bozzetto ora bassanese. Tale prima idea veniva successivamente modificata nel bozzetto già Tambroni, conservato ora nelle raccolte del Museo di Lione e tradotto nelle due versioni in marmo conservate al Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo e al Victoria and Albert Museum di Londra/ National Gallery of Scotland di Edimburgo. Il bozzetto ora bassanese costituisce pertanto la prima idea del gruppo e si distingue dai marmi realizzati per una composizione differente. Nell’abbozzo, velocemente tracciato e finito a colpi di stecca e con i polpastrelli delle dita, Antonio Canova superava l’impostazione frontale delle figure femminili di matrice romana in una composizione chiusa di tipo circolare. Al petto della figura più alta, che costituisce il perno della composizione, è infatti appoggiata la testa dell’altro personaggio, di spalle, che con il braccio circonda il collo della terza figura femminile e conchiude il gruppo. L’abbandono della figura avanzata accentua i valori di affetto e di amicizia e rivela come il polo ideativo della prima idea si possa riconoscere nel gruppo michelangiolesco della Pietà Rondanini, e si traduca in un’idea ancora debitrice, nella sua circolarità, ad una poetica barocca, superata nella versione definitiva, tradotta nel marmo. Tra i modelloni conservati a Bassano e provenienti per il tramite del lascito Sartori Canova dallo studio romano dell’artista i più importanti erano i grandi gessi per le statue a cavallo di Ferdinando II e di Carlo III di Borbone[69](figg.4-6), destinati ad essere tradotti in bronzo da Francesco Righetti nei grandi monumenti per Piazza Plebiscito a Napoli. Antonio Canova realizzava, infatti, tra il dicembre 1806 ed il maggio 1821, due modelli per un monumento equestre, dal dicembre 1806 all’aprile 1810, uno divenuto quello per Carlo III di Borbone, dal novembre 1819 al maggio 1821 per il suo successore, il re Ferdinando I, terminato dall’artista solo per la parte del cavallo. L’idea iniziale era stato un monumento equestre per Napoleone, commissionato nel dicembre 1806 dal nuovo re di Napoli Giuseppe Buonaparte per la piazza semicircolare da progettarsi e costruirsi di fronte a Palazzo Reale a Napoli. Il modello del cavallo si differenzia nei due monumenti nella posizione della testa, una girata verso destra, l’altra verso sinistra e delle zampe posteriori, che nel primo monumento appaiono piegata la destra, tirata la sinistra dello slancio del passo del trotto. Le redini nella prima accompagnano le braccia più alte del cavaliere, nel secondo scorrono all’attaccatura della testa. I due modelli, colossali, collocati nei due saloni del Museo, subirono due vicende differenti, entrambe sfortunate: il primo fu coinvolto nel bombardamento dell’aprile 1945 e venne quasi totalmente distrutto, il secondo fu segato negli anni ’70 in numerosi pezzi per l’immagazzinamento e fu nel corso delle movimentazioni dei depositi ulteriormente danneggiato. I frammenti recuperati appartengono ad entrambi i monumenti; esiste l’intero cavallo del monumento a Ferdinando III - del quale è ora esposta, restaurata, la testa (fig.24)

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24. Antonio Canova, Monumento a Ferdinando II (part. della testa), modello in gesso dipinto (1819- 1821). Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, inv. S60. I due grandi modelli per i monumenti di Piazza Plebiscito a Napoli sono ora, uno distrutto dal bombardamento del 1945, l’altro immagazzinato e sezionato.

- e due frammenti del monumento a Carlo III, riconoscibile per la presenza di frammenti del cavaliere. Il modello per il Monumento equestre di Carlo III di Borbone è indirettamente indicato dal Canova in una lettera a Giuseppe Bossi del 25 novembre 1807: «Forse l’opera dovrà fondersi in bronzo. Io frattanto sto modellando in creta un cavallo al naturale, che dovrà poi trasportarsi ad una grandezza superiore a quello del gruppo di M. Aurelio». Il Marc’ Aurelio sul Campidoglio costituisce effettivamente, com’era avvenuto per tutti gli artisti che prima di lui avevano progettato e realizzato monumenti equestri, il modello principale per la realizzazione della scultura, particolarmente nella testa e nella zampa anteriore destra alzata. Facendo propria l’opinione critica del Settecento e del primo Ottocento, da Du Bos a Gibbon, a Falconet, a Winkelmann, a Forsyth, tuttavia Canova modificava, rispetto alla statua romana, la struttura del cavallo, che Forsyth aveva definito nel corso del suo viaggio italiano del 1802 e 1803 «tozzo, pesante, massiccio», rivedendola alla luce dei differenti modelli che dall’antichità ai primi dell’Ottocento avevano presieduto alla progettazione di un monumento equestre. La sequenza dei disegni preparatori conservati nel Gabinetto Stampe e Disegni del Museo Biblioteca Archivio di Bassano del Grappa ci consente di ripercorrere il pensiero progettuale di Canova. La sequenza è quasi tutta conservata nell’Album Ec, comprendente i disegni preparatori per opere scalate nel corso dell’intera vita dell’artista. Un altro modellone può considerarsi anche la Testa di leone[70](fig.25),

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25. Antonio Canova, Leone, modello in gesso colorato (1783- 1787). Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, inv. 584. Il modellone bassanese, che stilisticamente è vicino alle terracotte di Possagno per la tomba Ganganelli ai Santi Apostoli, può costituire una fase di ricerca di Canova sui modelli per le sue sculture.

in gesso colorato, anch’esso momento di progettazione diversamente realizzato, stranamente conservato nei depositi fino al 2002. Ricordato come modello nel primo inventario delle sculture, ed erroneamente indicato di creta[71], il gesso rivela un notevole realismo esecutivo, una particolare possanza, unita alla consueta puntualità e raffinatezza esecutiva, particolarmente nella resa della criniera e della porzione del naso e della bocca. Le varianti formali rispetto al modello antico al quale i leoni canoviani si ispirano, il leone romano di I secolo di villa Medici, da lui ammirato nella prima visita romana del 1779[72], e agli esemplari realizzati per il Monumento Rezzonico del 1783-1792 nella Basilica di San Pietro inducono a ritenerlo un modello in gesso originale di un’opera non realizzata, fase successiva alle prove grafiche, conservatosi esclusivamente perché non tradotto in forma di gesso bianco per il successivo intaglio del marmo. L’uso di eseguire i modelli in scala reale in gesso è attestata in una lettera di Canova a Quatremère de Quincy del 17 gennaio 1810 nella quale lo scultore ripercorre le vicende relative ai modelli della Tomba Ganganelli ai SS. Apostoli, indicando la sua scelta, in quei primi momenti romani, di eseguire le prime prove non più in gesso, come era consueto, ma in creta: «la temerità d’intraprendere i modelli delle statue del monumento Ganganelli della stessa grandezza, cosa non più accostumata in Roma, prima di quell’epoca, mentre tutto lavoravasi con lo stucco, quando dovevano fare un modello poco più grande della metà del vero. Ho penato alquanto anch’io, ma coll’operare ho trovato la via, subito che tutti hanno abbandonato il modellare in piccolo, e in grande sono io stato, e tutti tutti si sono attaccati alla creta in grande»[73]. Le parole di Canova rivelano una scelta effettuata ma anche una ricerca portata avanti, in quegli anni dell’ottavo e nono decennio del secolo, che lo vedono affermarsi sulla scena romana. Il Leone bassanese potrebbe costituire un momento di tale ricerca nella quale l’artista sondava le possibilità di utilizzare il gesso, più facile da modellare, più consistente nelle grandi dimensioni, prima di approdare ad una materia come la creta che gli offriva maggiori possibilità espressive, ma che poneva problemi statici risolti con strutture interne in legno. La resa fortemente franta della criniera non si discosta stilisticamente peraltro dai modelli in terracotta di Clemente XIV e della Mansuetudine della Gipsoteca di Possagno, eseguito nei medesimi anni[74] e può avvallare sul fronte dello stile l’autografia canoviana e la collocazione cronologica del Leone bassanese. Di certo la quantità e qualità del lascito canoviano alla Città di Bassano non si esaurisce in queste note, ma il lavoro in atto, continuo ed approfondito, su questo patrimonio riserva ai ricercatori ed al pubblico scoperte e novità continue. Poco meno che un decennio dopo, il 30 giugno 1866, perveniva in Museo la donazione dell’Abate Jacopo Merlo, al quale si deve il lascito di trenta dipinti e cinque gessi di Antonio Canova[75]. Si tratta di un nucleo di opere, quasi tutte di soggetto sacro e di apparente provenienza ecclesiale, forse dalle aste e dagli acquisti di opere demanializzate. Si ricordano tra le altre il Cristo morto tra Maria e San Giovanni[76], genericamente attribuita a scuola veneziana, con un riferimento invece a Girolamo da Santacroce, che pare potersi riferire alla fase padovana di Gerolamo Silvio per gli evidenti debiti tizianeschi al tempo degli affreschi della Scoletta del Santo e una tangenza stilistica con le prime opere di Gerolamo Romanino[77]. Ci sono poi lo stupendo olio su paragone con Cristo tra i dottori (fig.26),

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26. Jacopo Palma il Giovane, Cristo tra i dottori. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, inv. 264. Il dipinto costituisce una delle prime opere del catalogo di Jacopo Palma ed è pervenuto in Museo con la donazione dell’abate Jacopo Merlo.

già riferito a scuola veronese, Domenico Brusasorci, o anche Claudio Ridolfi[78], riconosciuto da Alessandro Ballarin come opera giovanile di Palma il Giovane influenzato da Veronese[79], il più tardo olio del medesimo artista con la Deposizione di Gesù[80] e l’interessante tavola con Cristo crocifisso  con i ladroni, recentemente riferita a Francesco Zaganelli anche a seguito dei risultati delle indagini tecniche[81]. Dovette costituire un’assoluta novità in quegli anni di secondo Ottocento il lascito di Giuseppe Riva, che, il 6 settembre 1871, con codicillo autografo, destinava al Museo di Bassano, un patrimonio che l’allora direttore, tra il 1861 ed il 1884, Francesco Trivellini elencava in 79 dipinti, disegni in 11 buste e 286 cartoni per un totale di 733 disegni, 52 libri d’arte e 380 di diversa letteratura[82]. Tre anni prima il notaio Luigi Rasi aveva elencato in verità 159 dipinti, che costituivano la primitiva idea di lascito. I doni in vita alla Biblioteca Bertoliana ed al Museo Civico di Vicenza, al Museo Civico di Padova, al Museo Correr di Venezia, al Museo Civico di Belluno avevano costituito episodi isolati di un rapporto personale stabilito dal Riva con le istituzioni o con i relativi direttori, che doveva servire ad acquisire meriti ed onori al donante nella sua stessa attività di collezionista e attribuzionista. Antonio Riva, dilettante di architettura, letterato, poeta, ricercatore di archeologia[83], collezionista è nel complesso un personaggio singolare, erede dei curiosi e degli eruditi settecenteschi, ma con peculiari anticipazioni del collezionista eclettico e di curiosità di secondo Ottocento. Prelude a quel tipo di collezionista la sicurezza che ha della sua preparazione sulle molte materie della sua collezione, libri, monete, dipinti, disegni, la presunzione di pubblicare le proprie raccolte, ponendosi al livello di studiosi del calibro di Lazari o Cernazai, e di contro il grande fiuto in alcuni acquisti in aree assolutamente non oggetto di interesse nella prima metà dell’Ottocento, la pittura e la grafica del Settecento. Ma quello che interessa qui sottolineare è il rapporto privilegiato che Giuseppe Riva istituisce con il museo, realtà nuova e strutturata, che definisce il suo rapporto con il collezionista in maniera assolutamente moderna, come luogo della scoperta e del confronto, ma anche il luogo delle assenze che possono essere riempite. Con questo museo Giuseppe Riva istituisce, programmaticamente un rapporto da conoscitore e si mette in relazione con personaggi di primo piano dell’arte e della gestione museale, Vincenzo Lazzari direttore del Museo di Venezia[84], Antonio Diedo segretario dell’Accademia di Venezia[85], l’erudito Emanuele Antonio Cicogna[86], Bartolomeo Bongiovanni scultore e modellatore vicentino[87], Pietro Cernazai collezionista udinese[88],  Pietro Nobile, ricordato come dilettante antiquario prima che architetto[89], Giovanni da Schio novellista e antiquario vicentino[90], l’abate padovano Antonio Piazza collezionista di dipinti incisioni monete e libri[91], donati al Museo Civico di Padova. A Bassano i suoi amici e referenti sono le personalità più eminenti della cultura, i poeti e letterati Jacopo Vittorelli[92] e Giuseppe Bombardini[93], il poligrafo Giambattista Baseggio[94]. E’ interessante notare come Luigi Carrer[95], letterato romantico e poi direttore del museo veneziano lo ricorda come un «uomo della vecchia scuola», forse adombrando anche posizioni politiche diverse dalle proprie, apertamente antiaustriache e, commentando una sua poesia ricorda «i versi semplici, di semplicità antica, di quella semplicità che ai moderni è straniera, degenerati in vuote declamazioni»[96]. Le lettere antiche, la cultura antiquaria e la composizione poetica costituivano la sua quotidiana occupazione e la ragione delle conversazioni letterarie nel palazzo padovano di via San Biagio. Nel 1830 iniziava a collezionare dipinti. Suoi collaboratori in tale attività sono ricordati l’abate padovano Ferdinando Summan[97] copista e il pittore e paesaggista ancora bassanese Antonio Marinoni[98]. Pareri sui disegni ed incisioni espressero da Udine Pietro Cernazai, da Verona Andrea Monga[99], il veneziano Giuseppe Cadorin[100], i padovani Agostino Palesa[101] e Pietro Selvatico[102]. I nomi di dilettanti stranieri come Aimé Charles His de la Sale[103] e dall’agente Mündler[104] emergono dalla sua corrispondenza accanto a una messe di personaggi minori che attendono di essere indagati per offrire un quadro più completo sul collezionismo veneto del tempo. Carlo Dubois[105] compilò un catalogo della sua collezione di dipinti e cedeva al Riva la raccolta incisoria del Monaco. Nel 1853  era lo stesso Riva a dare alle stampe il catalogo della propria raccolta Alcuni quadri raccolti e illustrati da Giuseppe Riva[106], trasferendo in un trattato documentato ed argomentato le disquisizioni tra amateurs, collezionisti e facendolo diventare una summa di erudizione attribuzionistica. Il collezionista era per Riva «padrone di molte esperienze e dottrine», e «può non aver dato luogo nella sua serie che a pezzi scelti dopo vari rifiuti e paragoni, non permettendo che vi entrassero gemme false»[107]. L’attenzione è puntata, in particolare nella prefazione, nel sottolineare il ruolo che spetta al conoscitore nel riconoscere la paternità dell’opera, ma anche, la sua capacità personale di riconoscere le repliche ed i falsi. Tale attenzione sembra, analizzando i suoi dipinti, quasi una risposta a critiche in tal senso. Poco apprendiamo, sempre nella sua corrispondenza, circa la provenienza dei dipinti, che ci aiuti a farci un’idea della formazione delle raccolte.  Poche sono le indicazioni puntuali, nuclei di opere demanializzate, da San Giovanni di Verdara a Padova, famiglie patrizie - padovane, vicentine e mantovane -, Conti  per le prime, Pagello e Negri per le seconde. Un breve percorso, invece, tra alcuni dei capolavori provenienti della sua raccolta ora in Museo conferma la libertà e generosità attributiva del suo catalogo, rimarcata anche da Cernazai, al quale egli indirizzava una copia del suo libro: «Sol mi parve che talvolta soddisfi di troppo l’amor proprio quando questi intende trovar opere dei primari pittori» e continua: «Così i quadri quasi presi dal Correggio o dei suoi son troppi e di troppo di volgare stile nella di lei raccolta»[108] frasi che rivelano il ruolo di supervisore del letterato udinese, con una sincerità brusca e tranchant che non perdona e fa ipotizzare, al di là delle formule di cortesia, una sua non alta considerazione sulle capacità di conoscitore del Riva. Di certo assolutamente moderna è la sua capacità di conoscitore nell’ambito della pittura del Settecento veneto e la sua raccolta di pittura e di disegno del Sei e Settecento veneto rappresenta l’assoluta novità nel panorama del collezionismo veneto di quel tempo ed integra in maniera esemplare le collezioni bassanesi. Un aspetto del tutto particolare degli ingressi di secondo Ottocento in Museo è costituito dalle donazioni degli artisti viventi, in particolare quella del paesaggista Antonio Marinoni (fig.27)

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27. Antonio Marinoni, Rovine dell'Anfiteatro di Capua (1827). Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, inv. 62. Il lascito del pittore bassanese del 1867, rappresenta un nuovo capitolo delle donazioni museali, quello di artisti viventi.

che, nel 1867, unisce ai suoi dipinti precise disposizioni sulla collocazione e sull’illuminazione delle opere, e da ultimo di Alessandro Milesi che nel 1899 dona al Museo, in segno di gratitudine nei confronti della città, che lo aveva amichevolmente accolto nei suoi soggiorni estivi, un’opera giovanile, Il padre dell’autore sul letto di morte[109](fig.28),

28AlessandroMilesi

28. Alessandro Milesi, Il padre dell’autore sul letto di morte. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, inv. 205. Il dipinto, lascito dell’artista del 1899, colpisce per il valore assolutamente personale dell’opera.

che colpisce per il valore assolutamente personale. Due modi di concepire gli spazi museali si fronteggiano nelle disposizioni di Marinoni e Milesi, il Museo come luogo della perpetuazione della fama, nell’alta considerazione che il paesista bassanese aveva della sua opera, degna di essere esposta in vita nei modi della contemporanea e più corretta esposizione museografica e il Museo come luogo degli affetti nel quale l’artista ritrova se stesso e vive in eterno in compagnia degli amici e dei sodali di tutti i tempi. Nel maggio 1884, il passaggio di consegne al nuovo direttore, il musicologo Oscar Chilesotti, presente il “curatore” delle raccolte, il conte Tiberio Roberti ed il sindaco Valentino Berti[110] attesta la situazione espositiva delle raccolte segnalate nel catalogo del Museo di Ottone Brentari tre anni prima. La dettagliata esposizione degli inventari, 21 in totale, è accompagnata da una puntualissima verifica che segnala la particolare situazione patrimoniale delle sale occupate dall’Ateneo Veneto («perché L’Ateneo è quasi un’Istituto a parte di cui non furono mai chiaramente stabilite le relazioni col Civico Museo») e un precedente regime di scambi nei manoscritti della Biblioteca sia nella gestione Baseggio che in quella Trivellini. Nel 1891, quando alla Direzione arriva, fino al 1901, Tiberio Roberti l’Istituto aggiunge alla sua denominazione storica quella di «Osservatorio meteorologico» riesumando una vocazione scientifica di cui non si hanno ulteriori cenni. Il 1 settembre 1903 diveniva direttore Giuseppe Gerola (fig.29)

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29. Gaspare Fontana,  Ritratto di Giuseppe Gerola (1904 ca), Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, inv. 288. Giuseppe Gerola successe a Tiberio Roberti nella direzione dell’istituto bassanese e rappresenta la prima figura “moderna” di direttore.

a seguito di concorso, primo incarico, dopo l’importante esperienza archeologica cretese ( 1899-1903), di una lunga e significativa carriera di conservatore del patrimonio e di Soprintendente[111]. La scelta di abbandonare la ricerca storiografica ed archeologica per una carriera pubblica legata alla salvaguardia del patrimonio storico e artistico risulta difficile da comprendere e difficilmente da giustificare esclusivamente, come ricorda Fogolari, perché «desideroso di provvedere alla sua carriera»[112]. Le motivazioni, come sempre non univoche, risiedono certamente nella sua formazione di storico delle fonti medievali e nel ruolo che l’archivio di Bassano, pubblico dal 1840 e conosciuto nell’ambiente accademico italiano di secondo Ottocento, rivestiva nel panorama della ricerca medievale italiana. Ma, come sottolinea opportunamente Varanini[113], anche nella particolare conformazione a quelle date dell’operatore museografico italiano ed al cambiamento in atto della formazione professionale dei direttori dei Musei. La sua formazione, infatti, nelle Università di Padova e Firenze, improntata all’approfondimento delle discipline archeologiche, paleografiche e storiche, in particolare medievistiche, appare immediatamente lontana dalla formazione biblioteconomica che definiva fino a quelle date il profilo culturale delle nuove figure dei direttori dei musei civici di fondazione di primo e di secondo Ottocento. Ma sarà il soggiorno, nella prima metà del 1899, nella Albert-Ludwigs Universität di Friburgo in Brisgovia, a formare «un aspetto nuovo e diverso della sua fisionomia culturale»[114], ampliando la sua erudizione legata all’indagine di vicende storiche locali ad indagini culturali di più ampio spettro, che comprendono anche una disciplina al suo nascere, la storia dell’arte. In verità tutta la sua formazione, l’ambiente culturale ed accademico fiorentino ed i cambiamenti in atto nella cultura italiana di quegli anni saranno fondamentali nella definizione del suo profilo professionale, aggiornato alle mutate esigenze della museografia italiana di quegli anni. Infatti, per tutta la seconda metà dell’Ottocento, la formazione archeologica rappresentava una delle discipline primarie della gestione del patrimonio nazionale italiano, almeno a livello centrale. Sarà negli anni della formazione di Gerola, nell’ultimo decennio dell’Ottocento, proprio all’interno del Ministero per la Pubblica Istruzione, retto dal suo maestro degli anni fiorentini, Pasquale Villari, che avviene, nella gestione del patrimonio, la «netta separazione tra cose attinenti l’istruzione artistica e il progresso dell’arte contemporanea» e la conservazione dei monumenti, obiettivi che presuppongono una visione delle opere d’arte «come ‘documenti’ di storia e d’arte, anziché come ‘modelli’ per l’arte contemporanea»[115], visione ispirata da Adolfo Venturi e che Giuseppe Gerola farà sua nella gestione del patrimonio museale. La scelta di dirigere il Museo di Bassano si inserisce, tuttavia, nei suoi interessi archeologici intesi in senso lato, cioè integrati alla ricerca delle fonti scritte e figurative che costituiscono il maggior pregio dell’impostazione delle campagna di ricerca, archivistica, storica, epigrafica, monumentale e archeologica della missione cretese del 1900-1903[116]. E Bassano era stata protagonista a fine Ottocento a livello nazionale di un ritrovamento archeologico che rappresenta un caposaldo della ricerca paleontologica italiana. Ed era stato il roveretano Paolo Orsi a segnalare nel 1894 nella rivista dell’Accademia dei Lincei «Notizie degli Scavi d’Antichità», l’esistenza di un «campo d’urne» a san Giorgio d’Angarano nel fondo di proprietà della contessa Gessi, vedova Brocchi Colonna (fig.30),

30P Orsi

30. P. Orsi, Di un’antichissima necropoli e di altri avanzi romani scoperti presso Bassano Veneto, estratto da Notizie degli scavi d’Antichità, 1894. Bassano fu al centro degli studi archeologici italiani tra Ottocento e Novecento per il ritrovamento della necropoli di Angarano.

i cui reperti fittili e di bronzo erano stati da lui disegnati e descritti nel deposito presso il Museo. Il ritrovamento della necropoli viene commentato a livello nazionale dalle pubblicazioni paleontologiche di rilievo tra Otto e Novecento.[117] E’ nota la comunanza intellettuale tra Orsi, Halbherr e Gerola, pur nel ruolo di maestri dei primi sul nostro, la loro comune provenienza roveretana e l’eredità cretese di Orsi ed Halbnerr raccolta da Gerola[118]. L’attività di Gerola quale direttore del più antico museo del Veneto comprende, a partire dal settembre 1903, l’intero riordino del Museo con lo spostamento della biblioteca al piano terra e la costituzione di sezioni tipo logicamente organiche, la nascita del «Bollettino del Museo» nel 1904[119](fig.31)

31BollettinoMuseo

31. «Bollettino del Museo Civico di Bassano», anno I, Bassano, Pozzato, 1904, frontespizio. Fondatore del “Bollettino” fu Giuseppe Gerola.

e lo spostamento dal Municipio dell’Archivio Comunale a partire dall’ottobre del 1903[120]. Il lavoro svolto è sintetizzato nella Relazione, che porta la data del 1907, anno nel quale Gerola lascia Bassano per assumere la direzione del Museo di Castelvecchio di Verona, ma che potrebbe essere il progetto di sistemazione annunciato in data 29 settembre 1903, che affronta diversi aspetti e su differenti linee guida l’intera struttura museale. La relazione tratta della logistica del museo e della sistemazione delle raccolte, della loro consistenza e qualità, degli inventari ed dei cataloghi. L’aspetto più interessante è certamente rappresentato dalla decisione sullo spostamento della biblioteca al piano terra dell’edificio e contestualmente la decisione di individuare spazi precisi e distinti per le diverse raccolte, sala Parolini per il patrimonio naturalistico, il piano terra per la biblioteca, il Salone per la pinacoteca, il piano terra ancora per la raccolta del lapidario, un locale a lato del salone canoviano per la sezione di scultura bassanese, una sala a sud del salone della pinacoteca per la «pittura moderna», una saletta per le «memorie storiche», una sala per il medagliere. Particolarmente significativa nelle ricerche museografiche di quegli anni è la motivazione che conduce alla divisione tra museo, biblioteca archivio («perdono di valore essi medesimi quanti ne fanno perdere agli oggetti d’arte») e contemporaneamente il fatto che Gerola individui nelle «raccolte bassanesi» un valore storico, contrapposto al valore artistico della sezione generale del Museo. Segnale ancora del superamento della concezione tardorinascimentale del museo è la separazione delle raccolte naturalistiche da quelle archivistiche, librarie ed artistiche. Ma indice invece dell’attenzione alle «più moderne dottrine» quella di conservare l’ordinamento storico delle stesse raccolte naturalistiche, affidando a nuovi cataloghi una classificazione organica che rendesse agevole il reperimento e la consultazione dei materiali[121]. La sezione bassanese viene suddivisa in sottosezioni, «lapidaria», «scultura», «pittura moderna», «pittura antica», «iconografia degli uomini illustri», «archeologia», «incisioni», «disegni», «memorie storiche», «topografia della città», «varietà», ciascuna descritta e motivata; nell’elenco si rimarca la pari dignità data ai documenti storici accanto a quelli figurativi. Nella descrizione del lapidario particolarmente singolare alla data è il richiamo alla conservazione in loco degli stemmi e dei frammenti architettonici e decorativi ed al trasporto in museo solo degli «oggetti senza patria, …quelli che vagano dispersi e pericolanti, o che più non occupano la loro sede originaria». Un certo interesse suscitano alcune annotazioni strettamente attribuzionistiche, quale l’evidenziazione dei pochi dipinti di Francesco Bassano[122] o dell’assenza di opere dei Nasocchi nelle raccolte, segnalazioni alle quali Gerola annota l’opportunità di scambi con le chiese del circondario – «che potrebbero essere destinatari di quadri di minore qualità» - o l’esecuzione di copie per dare completezza alle diverse sezioni. Ancora di interesse sul fronte della classificazione storico-artistica è la segnalazione dell’opportunità di separare i dipinti dalpontiani dal Crocifisso di Guariento ed eliminare il gesso per il Monumento a Carlo III di Borbone, allora collocato al centro del salone dalpontiano, eliminazione legata evidentemente alla non comprensione del valore dei gessi canoviani nel suo percorso ideativo ed artistico, non comprensione che sarà di lunga durata e porterà all’eliminazione fisica di uno dei due manufatti ed all’immagazzinamento dell’altro. Una cura particolare, che occupa più di un terzo della Relazione, è riservata ai cataloghi ed agli inventari, integrati dalle indagini a stampa, sul neonato «Bollettino del Museo», qui spesso richiamati. Strettamente museografica è invece la preoccupazione sull’allestimento delle sale e sulla collocazione delle opere, la tinta e la tappezzeria delle pareti, in relazione alle opere («tinta più scura ed intonata» per le sculture), l’altezza dei dipinti, lo spazio tra loro, le cornici, l’illuminazione, il restauro. L’eliminazione dei cartoni per le incisioni della raccolta remondiniana, qui auspicata, con una collocazione dei fogli in pass-partout («di cui ebbimo ad approntare un campione») evidentemente non avvenne per ragioni tecniche[123]. E per concludere due appunti legati alla raccolta di arti decorative, ceramiche ed oreficeria, ed a quella numismatica. Mentre la prima viene auspicata richiamando l’esistenza, allora, «di due misere tazzine», la seconda, sempre nell’ottica di valorizzare il valore storico del documento artistico, viene esaltata in un’esposizione solitaria, che non turbi «l’armonia dell’ambiente». Appare significativo che mentre alla prima la museografia contemporanea ha destinato un museo, alla seconda di recente solo il riordino della classificazione di Luigi Rizzoli voluta dallo stesso Gerola e di certo la perdita di memoria collettiva. A Gerola succede il conservatore, di formazione scientifica torinese, Paolo Maria Tua[124], che sarà nominato direttore l’anno successivo, nell’aprile 1908, nel momento in cui in museo vengono installati i termosifoni. Sarà lo stesso Tua, che ha partecipato alle vicende del Museo per più di quarant’anni, fino al 1949, a presiedere alla modifica dell’allestimento iniziato da Gerola, tra il 1937 ed il 1939[125], con l’istituzione di una sezione bassanese al piano terra in dieci locali, nella zona ora occupata dalla Sala Fasoli, dove accanto alla sezione dedicata al costume ne venivano riservate altre tre agli incisori bassanesi, alle carte da parati ed alle stampe «popolaresche». Con la direzione di Licisco Magagnato tra il 1950 ed il 1955, quella di Gino Barioli nei cinque anni successivi e quella di Giuseppe Maria Pilo fino al 1960 inizia un’altra stagione del Museo, quella della valorizzazione delle raccolte attraverso le esposizioni temporanee. Fino agli anni ’60 del Novecento la valorizzazione è affidata a testi talora fondamentali di bibliografia bassanese ed alle poche mostre fuori Bassano, tra le quali è bene ricordare l’antesignana esposizione dedicata al Ritratto italiano a Firenze del 1911[126], soprattutto quella de Il Settecento a Roma con la pionieristica rivalutazione di Antonio Canova da parte di Lavagnino del 1959[127] e la mostra veneziana dedicata da Perocco ad Alessandro Milesi[128]. Sarà Licisco Magagnato nel 1952 ad inaugurare, con l’esposizione di opere restaurate di Jacopo[129](fig.32),

32MostradipintideiBassano

32. Mostra di dipinti dei Bassano recentemente restaurati, catalogo a cura di Licisco Magagnato, Vicenza, Neri Pozza 1952. La mostra curata da Licisco Magagnato fu la prima delle manifestazioni dedicate all’artista nel corso del Novecento.

un nuovo rapporto con il pubblico bassanese e non, in un museo ancora da recuperare dalle gravi ferite, anche fisiche, della Seconda Guerra Mondiale, aprendo la strada alla grande mostra bassanesca di Palazzo Ducale del 1957[130]. Sarà, tuttavia, il decennio successivo, e la direzione di Pilo ad affidare principalmente alle mostre temporanee la presentazione del museo, in una prassi tipica dell’attività dei musei in quegli anni, certamente favorita da un patrimonio di varia tipologia, assolutamente sconosciuto. La scelta di presentare incisioni e poi ceramiche nasce dal desiderio scientifico di approfondire aspetti poco noti o addirittura sconosciuti del patrimonio museale. La valorizzazione del materiale incisorio era iniziata nel 1960 con la presentazione dei fogli düreriani in due esposizioni, le Xilografie di Alberto Dürer e le Incisioni di Alberto Dürer[131](fig.33),

33AlbrechtDurer

33. Albrecht Dürer, L’ultima cena. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, collezione Remondini. Il foglio fa parte della "Piccola Passione" che fu esposta nella mostra del 1960 dedicata alle incisioni del grande pittore tedesco comprese nella collezione Remondini del Museo.

continuata con la presentazione dei fogli di Antonio Tempesta e quella riservata alle Incisioni di Giulio Carpioni del 1962[132]. L’attività di mostre caratterizza consistentemente quegli anni - e pare concentrare l’attività - che vedono Pilo recuperare, in linea con gli interessi veneziani dello stesso momento, la Pittura dell’Ottocento a Bassano e poi, nel 1964, il paesaggio veneto del Settecento attraverso il profilo del suo protagonista Marco Ricci. La direzione di Bruno Passamani continua la prassi di mostre inaugurata da Pilo, inserendola tuttavia nel più complesso compito di recupero allestitivo e conoscitivo del percorso museale, che culmina con il nuovo allestimento Compostella della fine degli anni ’60, con la nuova “Sala delle stampe e dei disegni”, e con la revisione critica delle raccolte che porta al primo catalogo generale del Museo del 1975. Pertanto da quel momento anche la valorizzazione delle raccolte incisorie del Museo era inserita nel recupero fisico delle raccolte e affina gli strumenti critici dedicando la mostra del 1967 ai Chiaroscuri italiani dei secoli XVI-XVII-XVIII[133], la successiva, nel 1968, a Marco Ricci e gli incisori bellunesi del ‘700 e ‘800[134] e nel 1970 alle Acquaforti disegni e lettere di G.B. Tiepolo[135](fig.34).

34GiambattistaTiepolo

34. Giambattista Tiepolo, Acqueforti: disegni e lettere nel secondo Centenario della morte, a cura di Bruno Passamani, Bassano, Vicenzi 1970. Le mostre curate da Passamani sono contestuali all’attenzione conservativa per i fogli con l’apertura della nuova Sala delle “Stampe e dei disegni”, compreso nel nuovo allestimento Compostella.

Sono gli anni in cui Passamani si dedica anche alla produzione contemporanea, ceramica e incisoria, aprendo – ma continuando l’attività di Magagnato nel campo della produzione ceramica - un fronte che tuttora risulta sporadico nelle manifestazioni di rilievo. Nella linea potenziata da Passamani sarà l’attività di direzione di Fernando Rigon, dalla fine degli anni ’70, che individua nelle collezioni museali il punto di partenza della reale valorizzazione delle raccolte, affidando alle esposizioni temporanee il compito non solo scientifico ma anche didattico di approfondire la loro valenza artistica. Spetterà a lui inaugurare il 29 settembre 1979 la nuova sezione archeologica del Museo (tav.11) dedicata alla più cospicua ed importante donazione d’arte alla città in epoca moderna, la donazione archeologica di Virgilio Chini[136](fig.35),

35VirgilioChini

35. Virgilio Chini inaugura la Sezione archeologica dedicata alla collezione da lui donata alla città, 29 settembre 1979. Virgilio Chini, illustre clinico italiano, dona alla sua città natale la più importante collezione archeologica del Museo, composta principalmente di ceramiche greche ed apule.

illustre clinico italiano, di nascita bassanese, figlio di Lorenzo, preside del regio ginnasio cittadino tra il 1890 ed il 1923, istituto che aveva la propria sede negli ambienti del piano terra del Museo che dal 1979 ospitano la raccolta che prende il nome dal donatore. Perfezionata nel 1978, la donazione Chini comprende materiali archeologici, tra vasi, terracotte figurate, bronzi, gioielli e monete, e costituiva a quella data la più importante collezione di ceramica greca ed apula dell’Italia Settentrionale, primato che oggi Bassano divide con la collezione di Banca Intesa[137]. Il primo nucleo della raccolta proviene dal padre che era stato preside per pochi anni ad Ostuni ed era stata completata nel soggiorno pugliese di Virgilio Chini, che a Bari ricoprì le cattedre di patologia e clinica medica dal 1939 al 1971. Il nucleo centrale della collezione comprende materiali ceramici di produzione apula tra il VII e il III secolo a.C. e di produzione greca provenienti non solo da città di fondazione greca, quale Taranto in Puglia, ma anche da abitati della zona centro-meridionale della regione segnati da influssi culturali ed emigrazioni dalla Grecia. L’unico nucleo di documentato contesto proviene dal Monte Sannace, nella Paucezia interna e comprende un askos, tre lekytoi attiche a figure nere ed un elmo in bronzo, di tipo corinzio ma di probabile fabbricazione apula, decorato sulla fronte, materiali che confermano i rapporti tra la Grecia e l’area centrale della Peucezia nel VI secolo a.C. La ceramica corinzia è rappresentata da recipienti di piccole dimensioni, alabastra allungati, aryballoi globulari, amphoriskoi a due anse con decorazioni stilizzate geometriche o animali, cigni, antilopi, giaguari principalmente del VI secolo (Medio Corinzio o Tardo Corinzio); solo l’aryballos decorato con cigni si può datare alla fine del VII secolo ed appartiene stilisticamente all’Antico Corinzio. Tra i materiali attici va segnalato il cratere a colonnette della cerchia del pittore di Lydos della metà del VI secolo, con una figura ammantata tra due leoni ed una fila di danzatori, dove Menadi e Sileni fanno corona al dio Dioniso. Accostabile al pittore del gruppo di Mikra Karaburun appartiene l’altro cratere a colonnette con Dioniso tra due menadi e tre guerrieri, databile al 490-480 a.C. Il nucleo più consistente della raccolta è costituito dalle ceramiche apule ed in particolare quelle paucete, anche per la provenienza del materiale dalla collezione Cirillo di Torre a Mare, antico centro costiero unitamente alla prossima Bari Vecchia e dei centri limitrofi di Adelfia, Noicattaro, Rutigliano, Conversano e Turi. Il pezzo più antico è una gigantesca olla bicroma del VI secolo a.C., decorata con fasce parallele nella metà superiore, con dischi rossi e motivi arcuati neri rivolti verso la parte più bassa, recuperata con un complesso intervento di restauro da maldestre ricostruzioni antiche. Tra i pezzi più rari, l’unico rinvenuto e conservato in Italia (fig.36),

36Artealessandrina

36. Arte alessandrina dell'ultimo quarto del IV secolo a.C., Hydria con placchette a rilievo, Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio. Proveniente forse da Oria, unico ritrovamento italiano nella tipologia, il grande vaso costituisce un unicum nelle collezioni italiane.

è la grande hydria monocroma nera, pare proveniente da Oria, decorato sul collo da fiori di loto stilizzati alternati a triangoli, sul corpo da un ramo d’edera con corimbi e da cinque placchette di ispirazione mitologica a rilievo, ripresi, al pari della morfologia del vaso bacellato, da prototipi metallici. Esemplari analoghi furono prodotti in Cirenaica, a Creta e soprattutto ad Alessandria d’Egitto.   

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