Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

Il 17 ottobre 1259 il Comune di Bassano, uscito dalla dominazione di Ezzelino III, approvava i propri statuti. La rapidità di approvazione di tali norme – Ezzelino era morto a Soncino ai primi di ottobre- rispondeva alla necessità, di fronte al controllo subito esercitato dai vicentini sulla città e di lì ad un anno al passaggio sotto la dominazione padovana, di ribadire la struttura amministrativa della città e le regole delle attività economiche. La copia delle prime norme è contenuta in un codice membranaceo scritto dall’arciprete di Bassano Guglielmo tra il 1265 ed il 1266[1], ornato in undici fogli nei capolettera, solitamente la I di iuro, con piccoli personaggi talora rappresentativi, come nel caso del Sacramentum beccariorum o del Sacramentum castellanorum, della funzione che svolgono, rispettivamente macellai e castellani, ed alla quale alludono rispettivamente con i coltelli e con le chiavi, e ancora con pavoni, draghi, buoi e droleries di vario tipo, eseguiti a penna ed inchiostro seppia, con pochi tratti a tempera in rosso e giallo[2] (tav.10). E’ questa l’unica testimonianza pittorica duecentesca nel Bassanese di cui esista riferimento cronologico[3]. Stilisticamente, le miniature del codice bassanese costituiscono un unicum nella miniatura veneta di quegli anni molto influenzata dal Maestro dell’Epistolario di Giovanni da Gaibana; mettono in campo, infatti, un repertorio, disegnato con mano incerta, che nelle fisionomie dei piccoli personaggi, tratti marcati ed espressionistici nei pomelli rossi che definiscono le guance, si riallacciano alla miniatura veronese del periodo ma che presentano, nella vivacità rappresentativa e corsività narrativa dei pinakes, aspetti della miniatura francese e bolognese della metà del Duecento (fig.1).

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1. Miniatore del 1265-1266, Statuti. Penna, inchiostro e tempera su pergamena. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, Archivio Comunale, n.12, c.1r.
Pergamena miniata degli Statuti cittadini deliberati immediatamente dopo l’uccisione di Ezzelino III e il ripristino delle decisioni consiliari.

Il luogo della gestione amministrativa del potere, il duecentesco Palazzo Maggiore, sede del Comune, sorgeva, secondo le ipotesi avanzate[4], nell’area dell’attuale Piazzotto Montevecchio, forse nella parte verso nord e cioè sull’attuale via Zaccaria Bricito, o anche, in senso altimetrico, nell’area che sale verso il castello, interessata da un atto generale di confisca dei beni dei da Romano tra i quali «la grande casa…nella quale Alberico soleva abitare», attestata «sopra la Piazza» da parte del Comune subentrante. In questa stessa area, ancora in un edificio allora di proprietà Finco in via Zaccaria Bricito 12, nel 1993 veniva rinvenuto e studiato da Maria Elisa Avagnina lo splendido brano di affresco che si rivelava subito «un riferimento obbligato della pittura del Duecento in Europa» [5](fig.2; tav.11).

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2. Artista della metà, seconda metà del XIII secolo, Omaggio di una rosa o la versio de rosa et viola, affresco. Bassano del Grappa, via Zaccaria Bricito 12.L’affresco rappresenta uno dei più importanti testi pittorici italiani del Duecento. Vi si vogliono riconoscere le figure di Federico II e della terza moglie Elisabetta d’Inghilterra o la metafora dell’ “amor cortese”.

L’affresco insiste su un intonaco di cm 171 di altezza e 347 di larghezza e la porzione affrescata raggiunge, con le cornici inferiore e superiore un’altezza di cm 162. L’ambiente entro il quale ora si conserva ha subito pesanti modifiche di distribuzione degli spazi e dei solai, soprattutto nel XV secolo, tanto da non consentire neanche di ipotizzare le dimensioni originarie in larghezza, ove nella parete destra è mutilo, ma soprattutto la destinazione della stanza e pertanto la sua funzione. Si può tuttavia ipotizzare che il limite architettonico della stanza sulla strada corrisponda al margine destro dell’affresco, fatto che consentirebbe di collocare la porzione significante del brano, le due figure regali, al centro della scena, ipotizzando una maggiore larghezza a destra del brano, con un’aggiunta di altri 50 cm ca. Entro uno spazio rettangolare chiuso in alto da una cornice a fisarmonica su fondo nero e in basso da un residuo di cornice a foglia d’acanto arrotolata, è impostato, senza fondale, sull’intonaco grezzo, l’omaggio da parte di un re di un rametto di rose a una regina, anch’essa seduta alla sua sinistra con un falcone appoggiato alla mano guantata. Alla destra del re stanno in piedi, due figure, la prima con una lunga tunica a righe, che cade in maniera colonnare fino alle caviglie, il secondo con un abito bicolore intento a suonare una viella. Lo studio dell’affresco era ripreso in occasione delle celebrazioni ezzeliniane a Bassano del Grappa nel 2001 con l’intento, dichiarato, di «guardare dalla Marca veronese e dal Pedemonte ezzeliniano alla grande avventura imperiale», accumunando in un unico disegno propagandistico dell’imperatore L’Omaggio del Palazzo Abbaziale di San Zeno a Verona[6] e l’Omaggio di una rosa di casa Finco a Bassano[7]. Il legame tra i due affreschi viene attuato nello “scenario storico comune” del viaggio di Federico II, iniziato il 16 agosto 1236 con l’entrata a Verona, residenza di Ezzelino III da Romano, culminato nella grande vittoria riportata a Cortenova il 27 novembre 1237 sul carroccio lombardo, continuato tra il gennaio e il 24 marzo 1239 tra Vicenza e Padova, dove lo raggiunge la scomunica di Papa Gregorio IX e terminato a Verona il 3 giugno di quell’anno, dopo l’assedio vittorioso di Treviso e un transito attraverso Cittadella e Castelfranco, nel quale si può ipotizzare l’intenzione o l’avvenuta visita alle case ezzeliniane di Bassano. L’affresco di Bassano appartiene «ad una diversa sfera di ricezione, privata ed elitaria» e «per quanto a prima vista sorprendente e destabilizzante rispetto al panorama noto della cultura figurativa italiana della prima metà del Duecento» è ancorato a quella data del 1239, presumendo la sua esecuzione alla presenza di Federico II in area e identificando nella figura regale che regge il fiore lo stesso imperatore (fig.3)

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3. Artista della metà, seconda metà del XIII secolo, Omaggio di una rosa o la versio de rosa et viola (part.), affresco. Bassano del Grappa, via Zaccaria Bricito 12.
Particolare della figura regale che offre una rosa.

e nella figura femminile (fig.4)

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4. Artista della metà, seconda metà del XIII secolo, Omaggio di una rosa o la versio de rosa et viola (part.), affresco. Bassano del Grappa, via Zaccaria Bricito 12.
Particolare dell’altra figura regale seduta con la mano guantata ed il falcone.

che regge il falcone sulla mano inguantata Isabella d’Inghilterra, terza moglie dell’imperatore, alla presenza di due personaggi, in uno dei quali le vicende raccontate da Rolandino relative al variopinto éntourage di corte dell’imperatore e le più recenti ricostruzioni dell’ambiente trobadorico che gravitava intorno a lui, hanno portato a incarnare, anche simbolicamente, uno dei poeti a lui famigliari, Sordello o Uc de Saint-Circ o Messonget, o Guilhem Raimon o Peire Guilhem de Luserna[8]. Sul piano dell’analisi stilistica, Elisa Avagnina individuava «la straordinaria qualità e modernità» del linguaggio pittorico del brano bassanese e riconosceva «nel pungente senso naturalistico, intensità espressiva e vocazione spaziale delle figure, capaci di accamparsi liberamente sulla superficie bianca della parete con evidenza analoga a quella di una miniatura sulla pagina di un codice» l’eco della coeva cultura gotica d’oltralpe. Esclusi riferimenti stilistici in area, la consonanza di spirito era individuata nelle miniature del De arte venandi cum avibus, il celebre trattato di caccia fatto eseguire da Federico II nel castello di Andria e a lui sottratto nel 1248 e poi disperso, e in particolare nei disegni al tratto dell’esemplare, supposta una copia, fatto eseguire dal figlio Manfredi dopo il 1258, conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, il ms. Vat, Lat. 1071[9](fig.5).

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5. De arte venandi cum avibus, pergamena miniata. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Vat.Lat.1071. Supposta copia del celebre trattato di caccia fatto eseguire da Federico II, a lui sottratto e poi disperso, realizzato dal figlio Manfredi nel 1258.

Nelle more degli interventi dell’Avagnina era intervenuto, nel catalogo della mostra romana dedicata a Federico II del 1995, Valentino Pace con un saggio d’impostazione metodologica sulla pittura e miniatura federiciana. Richiamando la necessità di analisi corrette metodologicamente e individuando nella costruzione della pittura federiciana in generale –«Esiste una pittura federiciana?» – e nelle argomentazioni dell’Avagnina un tipico esempio di «circuito chiuso in cui la dimostrazione di una tesi si avvale di argomentazioni che si basano sul sostegno reciproco e non su valenze probatorie esterne»[10], riaffermava il valore dell’analisi stilistica sulle ricostruzioni del mito e concludeva assegnando l’affresco di casa Finco al terzo quarto del XIII secolo. Nel frattempo procedevano gli approfondimenti architettonici ed urbanistici, per confortare l’ipotesi che la casa dell’affresco fosse una delle case dei Da Romano, ipotesi preliminare alla costruzione storica della Avagnina. L’appartenenza del palazzo, ai primi del Cinquecento, alla famiglia padovana dei Novello, in continuità con la presenza nel lotto, che ora è contiguo, di un camino carrarese a colonnette in maiolica (tav.19)– insieme con quello del castello di Monselice, gli unici esempi superstiti della spettacolare tipologia, dei quali si parlerà più oltre - potrebbe attestare un passaggio, ancora nel secondo Duecento, dalla proprietà del Comune, beneficiario delle confische ai da Romano, ad una delle famiglie maggiorenti dei nuovi padroni della città. Tutte ipotesi che certamente dimostrano l’esistenza del costruito nell’area nel Duecento ma che richiedono molte cautele in un’eventuale automatica deduzione dell’identificazione della casa in una casa dei Da Romano, «in attesa che accurate indagini archeologiche e la lettura stratigrafica degli alzati murari che compongono l’intero isolato, coniugandosi con la sterminata (e sterminante) repertoriazione di tutti gli atti notarili dal ‘400 al ‘700 riescano a corroborarla di più robusti puntelli»[11]. Pur in un condiviso, anche se non documentato, riferimento topografico alle case degli Ezzelini, nelle quali l’uso dell’affresco è documentato – in un documento del 1268 si accenna ad un portico dipinto, «sub porticali pinto»[12]- il riferimento stilistico richiamato dall’Avagnina alla cultura pittorica sveva, cioè alle immagini del trattato federiciano della falconeria e all’affresco di Atri che a quello è stato associato, sembra tuttavia richiamare solo vicinanze di costume e di moda. Ciò che colpisce nell’affresco bassanese è infatti la solida costruzione delle figure, la loro evidenza volumetrica e spaziale, il carattere “spazioso”, per usare un termine giottesco, del pittore di Casa già Finco. Nella figura del paggio con l’abito a righe, il nostro pittore, infatti, disegnando la figura con le braccia incrociate – particolare ignoto fino alla pittura giottesca[13] - fa ruotare il busto verso l’imperatore, lasciando frontale la porzione inferiore del corpo. Analogamente egli si comporta nella costruzione del suonatore di viella, ove l’anchement della figura non viene risolto in una svirgolatura parallela al piano della parete ma la soluzione gli consente di far avanzare la spalla destra del musico, arretrando la sinistra, ove appoggia lo strumento. Ed è proprio l’elegante posa del musico, messa a confronto con quella delle Vergini della cappella del Castello di Appiano, che i recenti studi di Stampfer riferiscono ad una data compresa tra il 1204 ed il 1210[14](fig.6),

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6. Le Vergini sagge e le vergini folli (part.), affresco (1204-1210). Appiano, Cappella del Castello.
Importante documento della produzione di primo Duecento, evidenzia la distanza concettuale e cronologica con il ciclo bassanese.

che fa cogliere la distanza concettuale e quindi cronologica tra i due cicli. Il confronto poi con le immagini del codice federiciano rivela una differente impostazione spaziale, con le figure lì staticamente impostate frontalmente o totalmente di profilo con soluzioni assolutamente innaturali nella posizione delle braccia. Anche la costruzione volumetrica delle figure, certamente più vicina alle figure di casa già Finco che ai personaggi delle tradizione bizantina veneziana, assume connotati di iperrealismo nell’espressività dei volti, che ritorna negli affreschi di Atri, che nulla ha a che vedere con la raffinata quiete e naturalezza delle figure bassanesi. L’affresco di Bassano trova il suo riferimento stilistico primario nelle volumetrie della grande scultura gotica delle cattedrali europee ma anche nella tradizione naturalistica del Maestro dei Mesi di Ferrara (1220 ca) e nel Maestro dei Mestieri dell’arcata maggiore della Basilica di San Marco a Venezia (ante 1240), l’unico grande momento innovativo ed europeo della cultura artistica veneta della prima metà del Duecento. Pur riconoscendo, sulla traccia dei magistrali studi di Toesca, il ruolo svolto dalla scultura nella formazione del linguaggio artistico medievale, mancano a tutt’oggi solidi appigli per avvicinare i raggiungimenti volumetrici e di impostazione spaziale della scultura duecentesca alla coeva pittura del momento, che sembra ancorata a modelli più arretrati. Uno degli aspetti più eclatanti di questo naturalismo è la rappresentazione del tralcio spinato di rosa fiorita con un fiore quadripetalo e due boccioli, che nessun codice botanico neanche svevo di quegli anni illustra nei particolari di carnosità che il pittore bassanese dipinge. Altri aspetti di questo naturalismo sono certamente costituiti dall’aggiornamento della moda dei personaggi e dell’esatta riproposizione degli oggetti contemporanei. Già l’Avagnina approfondisce questi elementi in relazione alla viella a quattro corde più una di bordone, servendosi del parere scritto del maestro Francesco Facchin[15], che segnala riferimenti iconografici in dipinti databili nella seconda metà del Trecento (Incoronazione della Vergine di Catarino Veneziano, 1375, e di Stefano di Sant’Agnese, 1381) e di miniature della prima metà del secolo, sottolineando che «allo stato attuale della ricerca mancano, per il Veneto, riscontri iconografici attestanti che la tipologia dello strumento, nella sua forma tendente ad otto, e non semplicemente ellittica, fosse in uso in epoca anteriore alla metà del sec. XIV, tuttavia ciò non è escludibile a priori, proprio in forza della sua ampia tradizione d’uso». Quanto poi alla veste, anche la stoffa bicolore in verticale del musico trova riscontri nella pittura trecentesca ed in particolare nel secondo decennio del secolo XIV negli affreschi di Simone Martini della cappella di san Martino della Basilica Inferiore di Assisi. Analogamente, mentre l’acconciatura femminile con i capelli lunghi legati in una sola treccia che parte dalla schiena è documentata uguale per tutto il Duecento sin dagli affreschi della cappella del Castello di Appiano (inizio del XIII secolo)[16], la confezione a triangolo del corpetto femminile tagliato sotto il seno, indossato dalla regina (fig.4), trova riscontri iconografici a partire dall’ultimo quarto del XIII secolo, per affermarsi nella Cappella degli Scrovegni (1303-1305). Mentre per tutto il Duecento il corpetto non presenta passamanerie, relegate alle maniche, arriva fino alla vita ed aderisce ai seni evidenziandoli con un gioco di pieghe circolari, come attestano numerose testimonianze della prima metà del secolo[17], inaugura una nuova moda, all’inizio dell’ultimo quarto del XIII secolo, la principessa della leggenda di san Giorgio illustrata nel codice veronese del Convento di Santa Maria in Campomarzo a Verona[18](fig.7).

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7. San Giorgio e la principessa, tempera su pergamena (ultimo quarto del XIII secolo), dal Convento di Campomarzo. Verona, Biblioteca Civica.
Nella principessa un esempio di corpetto con passamaneria analogo alla figura regale con falcone dell’affresco bassanese.

La diffusione della moda è attestata in affreschi trentini, nel Duomo di Trento e nella chiesa di Santa Cecilia a Chizzola, databili ai primi anni del Trecento, forse già sotto l’influenza giottesca[19]. Si ritrova nel riquadro con Sant’Anna a Foen di Feltre[20], databile nell’ultimo quarto del Duecento, ove è riproposto anche il particolare della mano guantata della regina (fig.8),

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 8. Sant’Anna, affresco (ultimo quarto del XIII secolo). Feltre, fraz. Foen, chiesa di Sant’Anna. Un altro riferimento iconografico per la figura regale bassanese.

 particolare a dir poco strano in un contesto sacro. Lo scarto cronologico evidenziato tra la moda rappresentata e la datazione proposta indurrebbe a rivedere l’idea che si è andata consolidando in questi anni che lega l’affresco di casa già Finco con le vicende federiciane e con la committenza ezzeliniana, per scorgervi un episodio di poesia trobadorica in un contesto che nulla a che vedere con le tendenze guelfe o ghibelline della città di Bassano dopo la morte di Ezzelino III (1259) e l’affermarsi del libero Comune. L’esistenza di episodi analoghi, oggi perduti, sembrerebbe ipotizzabile alla luce dei numerosi codici miniati del medesimo momento con raffigurazioni di forte impatto narrativo ed aggiornate sul fronte dell’aggiornamento della moda[21]. La datazione proposta da Valentino Pace al terzo quarto del Duecento, senza nulla togliere all’importanza del brano, consente di inserire l’affresco in un momento della cultura scultorea europea, dopo il 1240, connotata spazialmente in modi che riscontriamo nell’Omaggio bassanese. Sarà così possibile spiegare la ripresa della figura della regina nell’affresco di Foen, ove anche la libertà di tratto dei particolari fisionomici del viso si relaziona al brano bassanese, consentendoci di intravvedere la possibilità di relazioni tra l’area bassanese e feltrina e creare, nel più consistente capitolo costituito dalla pittura influenzata dal cantiere marciano, un filone pittorico connotato da un naturalismo irrorato dai grandi esempi della scultura moderna. Sul fronte dell’interpretazione del significato della scena che rimane l’elemento più emblematico interviene ora Alvaro Barbieri[22], che, partendo dall’ipotesi di Maria Luisa Meneghetti di riconoscere nel brano uno specifico intervento performativo, cioè la versificazione in lingua d’oc della questio de rosa et viola di Pier della Vigna, propone una lettura che evidenzia non un episodio reale ma i suoi contenuti simbolici, quasi che sulla parete bianca, senza riferimenti di luogo, «le diverse effigie» si accampino «come altrettanti emblemi dell’eros cantato dai poeti di Provenza» ma come soggetti che compiono i rituali codificati del gioco cortese. Il suonatore di viella è simbolo del nodo indissolubile tra parola e melodia nell’interpretazione poetica e la centralità del canto nella costruzione e manifestazione del discorso lirico. Lo spettatore a braccia conserte è simbolo del pubblico selezionato ed attento. Le due figure centrali mettono in campo la regina di fiori e la “domna”, presenza centrale e sfuggente della poesia occitanica, che tuttavia nel rapace rivela il suo appartenere alla sfera della seduzione. Per Barbieri «le diverse figure dell’affresco bassanese sembrano designare rituali e valori fondativi dell’immaginario erotico cortese» e pertanto potersi adattare ad ambienti non specificamente destinati, ai quali, data la qualità dell’affresco, attendiamo ancora di dare un autore. Un preciso segnale, invece, dei legami della chiesa bassanese con le diocesi più settentrionali, collegate attraverso il fiume Brenta e i suoi affluenti ci è trasmesso da alcuni importanti brani di affresco, databili tra la fine del XII e il XV secolo, staccati a seguito dell’inondazione della Brenta nel 1966 dalla chiesa di San Bartolomeo di Pove, restaurati nel 1990 ed esposti in Museo Civico. Il piccolo edificio, posto sul guado del Brenta che consentiva il passaggio alla città di Bassano per chi proveniva dalla Valsugana era dipendente dall’XI secolo e fino al 1818 dalla chiesa di San Pietro di Mussolente, aggregata alla diocesi di Belluno[23]. Le porzioni più antiche dell’interessante palinsesto decorativo della chiesa, la Madonna e San Bartolomeo (?), l’Arcangelo Michele e San Pietro (?) e San Cristoforo (fig.9)

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9. San Michele Arcangelo e San Pietro (?), affresco (metà del XIII secolo). Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio (dalla chiesa di San Bartolomeo di Pove del Grappa).

rappresentano una delle poche testimonianze ancora di epoca ezzeliniana, che la sottile linea bruna sottolineata dal filetto verde sottostante della cornice consente di impaginare unitariamente in un unicum difficilmente negabile, pur con differenze di mano, imputabili a differenti maestranze all’interno della medesima bottega. L’adesione è a stilemi bizantini di sobria eleganza e di raffinato linearismo sia nel disegno che nella stesura coloristica: nel San Pietro il gioco della biacca, che striscia la veste e fa emergere le ombre in verde, quasi si trattasse di una xilografia a tre legni, nell’Arcangelo Michele il disegno dell’ala, una lingua di fuoco verso l’alto, alla quale si accompagna il braccio che regge la bilancia, le mani di tutti i personaggi affilate e armoniosamente piegate, il cuscino gonfio e rotondo sotto i piedi della Vergine, sul quale le pieghe a terra del manto creano un contrappunto di triangoli. L’irrobustimento del San Cristoforo è il medesimo del San Pietro e la flessuosa linearità del San Michele è la stessa del San Bartolomeo (?). In tutti, sulle vesti e sugli incarnati, sono visibili talora flebilmente, date le perdite di materia pittorica per lo stazionamento all’esterno e il trauma dello stacco, le striature della biacca che creano le pieghe e muovono le superfici. Si tratta di una cultura bizantina innervata dalla linearità e dal decorativismo d’influenza ottoniana, che la critica lega a soluzioni presenti nella pittura trentina, nei modi del maestro di Appiano, nel quale si attua una lettura autoctona del linguaggio ottoniano[24]. Esiste inoltre un’unità esecutiva e stilistica dei brani percepibile anche nel divertente decorativismo delle losanghe bianche e verdi del fondo e dell’abito del primo dei nostri affreschi dovrà essere ancora letta un’adesione ai modi già manierati di interpretare i mosaici che ne dà il maestro di Maia bassa, riconducendo l’esecuzione della decorazione di pove a una data compresa nel primo quarto del XIII secolo. La struttura dell’immagine dei due Santi, che partecipano entrambi di una sintesi già attuata tra cultura lagunare e correnti espressionistiche di matrice renano-salisburghese, e quanto si può mettere a confronto nei particolari fisionomici dei volti, lega i brani bassanesi con il riquadro del San Pietro del pilastro sinistro del Santuario dei Santi Vittore e Corona a Feltre[25](fig.10),

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10. San Pietro, affresco (prima metà del XIII secolo). Feltre, Santuario dei Santi Vittore e Corona, presbiterio. Staccati dopo l’alluvione del 1966, gli affreschi di Pove costituiscono un momento di lettura autoctona del grande linguaggio ottoniano, non lontano da analoghe espressioni della pittura trentina e bellunese.

consentendo di iniziare uno studio comparato di alcuni episodi della pittura duecentesca, che dovrebbe allargare la nostra limitata conoscenza dei modi e dei rapporti tra le diverse aree dell’entroterra veneto, attraverso l’analisi dei legami istituzionali e delle correnti di spostamento di uomini e artisti, d’idee e di pensieri, via fiume e via terra. Va aggiunto che a quel ciclo gli affreschi feltrini si ricollegano non solo per l’eleganza lineare nell’Arcangelo, ma anche per il rapporto volumetrico e disegnativo tra le linee rette e le rotondità della base del trono della Vergine. Cercheremo ora di attestare nella città di Bassano la situazione delle emergenze architettoniche in epoca ezzeliniana per confrontarla successivamente con la situazione trecentesca, in epoca carrarese. Ci soffermeremo poi sulle poche evidenze artistiche sopravvissute, cercando di offrire un quadro, evidentemente molto lacunoso.[26] Nell’inventario dei beni ezzeliniani figurano, nell’area intorno al castrum, il convento francescano di San Donato e nell’area del Brenta, da nord, il convento benedettino di Campese (tav.5) e l’area della chiesa di San Giorgio. La chiesa di San Donato nasce in anni successivi al 1227, anno nel quale Gregorio IX, con la bolla del 20 ottobre, attesta la sua benevolenza nei confronti dei francescani, forse per il loro impegno nei confronti dell’eresia catara. Proprio davanti a quella chiesa il 5 luglio 1228 Ezzelino il monaco avrebbe diviso il proprio patrimonio tra i figli Alberico ed Ezzelino. I francescani rimasero nella chiesa in borgo Angarano fino alla fine del XIII secolo, quando si trasferirono in ambito cittadino e lasciarono il convento a una comunità religiosa laicale femminile, impegnata nell’assistenza all’ospedale di San Giovanni Battista, primo nucleo della trecentesca chiesa di San Giovanni[27]. Ancora il Catastico ezzeliniano ricorda, alla data del 20 settembre 1202 come esistente la chiesa di san Giorgio -«apud ecclesiam Sancti Orii»[28], in un’area che Ezzelino il Monaco cede in quella data a Vitaclino priore del monastero benedettino di Campese, monastero che dagli antenati di Ezzelino aveva ottenuto settant’anni prima le proprietà più a monte per l’insediamento del monastero in riva al brenta. In verità la chiesa non vi è nominata e non siamo in grado di conoscere se proprietario ne è Ezzelino o il monastero di Campese. La chiesa di San Giorgio, semplice nella forma rettangolare con tetto a capanna e abside ribassata (fig.11; tav.8),

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11.12. Santa Margherita e Santa Lucia (part.). Bassano del Grappa, fraz. Angarano, loc. San Giorgio alle Acque, chiesa di San Giorgio. Il restauro in corso sta restituendo brani di affreschi su entrambe le pareti che in quella nord assumono connotati stilistici non lontani da coevi o immediatamente successivi cicli trentini.

conserva all’interno, in corso di scoprimento e di restauro[29], un ciclo di affreschi divisi tra le pareti nord, sud e ovest. La parete nord conserva una teoria di Santi, compresi entro ampie cornici a più comparti con rose stilizzate entro losanghe nella porzione centrale. Da ovest vi si riconoscono San Cristoforo, San Giovanni Evangelista, Sant’Antonio Abate, San Giorgio a cavallo, Santa Margherita, Santa Lucia e una Madonna con il Bambino (figg.11-12). Entro una cornice differente, cosmatesca con patera al centro dei lati, un San Michele Arcangelo, più tardo, che copre l’affresco coevo alla serie della parete, di medesimo soggetto. Il ciclo presenta notevoli consonanze tematiche con il codice veronese n.1853 della Biblioteca Civica di Verona, che contiene le leggende dei Santi Giorgio e Margherita, datato alla fine del XIII secolo[30]. Stilisticamente i brani si segnalano per la netta definizione dei contorni, del volto, degli occhi, del naso e delle mani, sottolineati da un deciso segno di contorno marrone tendente al mattone e una vivace evidenziazione espressionistica nei volti, negli abiti e nei numerosi elementi decorativi delle vesti. La sottolineatura degli scolli femminili con perle risente della persistenza di elementi ottoniani, in particolare nella cultura artistica veronese e nelle declinazioni meno colte del Trentino. Ed è proprio con l’artista attivo in Santa Cecilia a Chizzola e nel Duomo di Trento, che il Maestro di San Giorgio trova un ambito di appartenenza. La semplificazione costruttiva delle figure colonnari, dei piani definiti dai contorni, la raffinata costruzione delle bocche a cuore, le orecchie che emergono dai capelli compostamente tirati, una gestualità stereotipata, con le grandi mani in primo piano, rivelano nei santi bassanesi una stagione anticipatrice, negli ultimi anni del Duecento, dei cicli trentini. In epoca ezzeliniana esistevano tuttavia già la chiesa del Castello, intitolata a Santa Maria e la chiesa di Sant’Eusebio. La chiesa di Santa Maria fondata forse in occasione dello scisma (tricapitolino) aquileiese che sconvolse la terra veneta durante il periodo di dominazione longobarda tra il 553 e il 698[31], come viene in parte confermato nei recenti ritrovamenti, sui quali si soffermano Paganotto e Cozza in questo volume, di quell’epoca e della successiva, fino a quel 998, quando è attestata come esistente, non conserva documenti artistici. Mantese ipotizza, confutando una testimonianza che la primitiva forma della chiesa fosse circolare, che il primo impianto fosse rettangolare con la successiva aggiunta di abside e cappelle. In ordine di tempo, la prima testimonianza artistica della chiesa è costituita dal brano mutilo di una Cattura di Cristo[32](fig.13),

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13. Cattura di Cristo, affresco (fine del XIII secolo). Bassano del Grappa, chiesa di Santa Maria in Colle, parete destra.
Il brano testimonia l’esistenza di una chiesa matrice duecentesca della città. I caratteri stilistici, bizantini, ma con accezioni di terraferma, dipendono dal ciclo del Palazzo Vescovile di Treviso del 1260ca.

che si connota stilisticamente per la compresenza di elementi stilistici compositi. La linearità – della definizione fisionomica, delle vesti, del tratto pittorico- recepisce le soluzioni trentine degli affreschi della chiesa di San Giacomo di Termeno[33], alle quali riconduce una certa icasticità al limite del grottesco - in ogni caso, che privilegia i dati del reale - delle teste dei soldati. Accanto, nella testa di san Giuseppe d’Arimatea a sinistra, evidenti lumeggiature nei capelli tradiscono le influenze dei mosaicisti marciani sul territorio. Una certa compostezza “ellenica” riconduce ancora alla cultura veneziana esportata in terraferma con esiti che presuppongono, ad esempio, il ciclo vescovile di Treviso, del 1260 ca.[34] Peraltro la risentita corporeità delle figure, una dietro l’altra, una accanto all’altra, con una ricerca del lontano nelle teste degli armati al centro, consigliano una datazione più avanzata della metà del XIII secolo. La chiesa di sant’Eusebio in Angarano dominava la riva destra del Brenta e, nel suo insediamento e nel suo alzato pareva risalire ad anni anteriori al XIII secolo[35]. Lo scavo del 1993[36] ha tuttavia rivelato nell’area a destra dell’attuale porzione di entrata della navata una struttura fondativa biabsidata, la centrale con finestrella centrale a doppia strombatura, con muri convergenti verso ovest; il muro nord corrispondeva all’attuale muro destro della struttura settecentesca, che arretra la sua fondazione in anni compresi tra il VII e il X secolo[37](fig.14).

3 -quaderni di archeologia

14. Rilievo delle murature rinvenute sotto l’attuale pavimentazione della vecchia chiesa di sant’Eusebio.  
Il rilievo evidenzia una primitiva chiesa biabsidata con muri convergenti verso Ovest, compresa tra il VII e X secolo.

Ma è certamente il monastero di Campese l’emergenza “extra moenia” più importante nel contesto europeo degli insediamenti benedettini (tav.5). Arrivava, infatti, nella primavera del 1124, sulle rive della Brenta a nord dell’oppidum bassanese, in località Campese, l’abate Ponzio di Melgueil con alcuni monaci, di ritorno dalla Terra Santa. Priore del grande monastero francese di Cluny, aveva lasciato la Francia alla fine del 1123 per incontrare papa Callisto II, a seguito di contrasti all’interno del suo convento, malcontento che sfocerà nella sua sostituzione. Forte dell’appoggio delle grandi famiglie signorili, i da Romano, i da Camposampiero e i da Baone, Ponzio insediava un cenobio eremitico ed una chiesa nella località denominata, con voce germanica, Kan Pise, cioè Ai Prati. I terreni, di proprietà del vescovato vicentino, sono ceduti, con scambio, a Tiso detto Brenta, fratello di Alberico ed Ezelo da Romano e a Desmassaterra, intermediari e garanti dell’abate Ponzio con atto steso a Vicenza davanti al vescovo Sinibaldo, il 18 giugno 1124 e l’atto è perfezionato quattro giorni dopo, con la cessione dell’area all’abate Uberto, area che, in ricordo dei luoghi in Terrasanta legati al sacrificio di Cristo, è ribattezzata Camposion o Campo di Sion[38]. Alla croce di Cristo e alla Madonna è dedicata la chiesa del convento, con tre absidi rivolte a oriente e due cappelle laterali, sulla porzione finale della navata, tanto da avvicinare l’edificio alla forma della croce, «ita utquandam formam crucis cum se feret edificatio»; l’orientamento della navata e le aperture sono costruite in relazione al corso del sole e in esse è possibile osservarlo e con esso costruire durante l’intero arco dell’anno le braccia di una croce[39]. Il monastero, prima della partenza dell’abate Ponzio per Cluny verso la fine del 1125, aveva esteso i suoi possedimenti, grazie all’appoggio dei vassalli imperiali, verso il Margnan, il canale di Brenta e a ovest a Marostica, fino a Vas in territorio trevigiano. Due anni dopo, il 3 luglio 1127, i vassalli imperiali, Tiso, Ecelo, Alberico da Romano, Gionata e Bertelaso da Angarano, Ingleberto da Marostica, Rodolfo, Artiuso fu Enrico del Margnan ed Enrico del Collo trasferirono tutte le terre all’abbazia benedettina di Polirone; il piccolo cenobio di Campo Sion entrava da allora nell’orbita cluniacense al pari di Praglia e di Polirone, raggiungendo ben presto una sua consistenza numerica e, grazie a crescenti donazioni fondiarie e di denaro, un’autonomia economica di una certa importanza[40], tutelata dalla protezione, imperiale, da Lotario III nel 1132[41] e del papato, a partire da quella di Innocenzo II del 1132[42], per continuare fino a quello di Innocenzo IV del 1249[43]. L’elevazione, a partire dagli inizi del XIII secolo, dell’antica cappella di San Martino, di supposta fondazione longobarda, a chiesa pievana, retta da un sacerdote espresso e delegato dal monastero[44](tav.7), apriva ai benedettini la cura delle anime della destra Brenta, eliminando la sudditanza da Solagna. Dal 1221, Ezzelino il Balbo fondava a Oliero una chiesa e un ospizio, affidandolo alla cura ancora dei benedettini, con la disposizione che alla sua morte ne sarebbe passata anche la proprietà[45]. Meraviglia, a fronte di una tale importanza istituzionale e fondiaria, che il monastero non abbia tramandato ai posteri il segno religioso della sua fondazione, che, in considerazione della titolazione data dall’abate Ponzio alla chiesa, non poteva non essere un frammento della reliquia della Santa Croce, portata dai monaci benedettini dalla Terra Santa. Un’ipotesi recente ripropone quanto Gina Fasoli ipotizzava senza documenti nel 1986 come una risposta legata al rinvenimento sul retro della croce duecentesca, di un vano per reliquie, cioè che la Croce, non attestata alla fine del Trecento in Duomo, potesse provenire dal monastero benedettino di Campese e fosse stata eseguita per ospitare una reliquia[46](fig.15).

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15. Crocefisso ligneo (particolare dell’incavo per la reliquia). Bassano del Grappa, chiesa di san Francesco. Il Crocefisso, databile all’inizio del XIII secolo, è documentato in Santa Maria in Colle a partire dal 1681. Una recente ipotesi lo vuole eseguito per il convento benedettino di Campese.

Si tratta di uno dei più antichi documenti artistici medievali in città, il Crocefisso ligneo (tav.6), ora conservato nella cappella presbiteriale destra della chiesa di San Francesco documentato, solo dal 1681, nell’arcipretale di Santa Maria, rivelatore di una vitalità artistica e di un’autonomia di linguaggio più rivolto alle influenze del romanico tedesco che a quelle bizantine del grande cantiere dei mosaici della Basilica di San Marco. La croce in legno di pioppo presenta la faccia anteriore scolpita con un Cristo ora privo di braccia, barbuto, con un lungo perizoma legato da una larga cordella intrecciata sul davanti e cadente al centro. I piedi accostati sul suppedaneo chiudono il braccio verticale della croce mentre i due bracci orizzontali presentano a destra l’emblema del sole, a sinistra quello della luna inseriti in una stella; la luna è bendata. Sul retro, (fig.16)

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16. Crocefisso ligneo (particolare della decorazione pittorica del verso). Bassano del Grappa, chiesa di san Francesco.
Un Agnus Dei  ed un Tetramorfo, mancante dell’ Aquila, tra girali bianchi su fondo rosso decorano la faccia posteriore del Crocefisso.

su un fondo di medaglioni azzurri stellati è dipinto l’Agnus Dei e ai lati un Tetramorfo, mancante dell’Aquila, collegato da girali bianchi su fondo rosso[47].

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17. Crocefisso ligneo (particolare della figurazione del recto). Bassano del Grappa, chiesa di san Francesco.
La presenza della figurazione del sole e della luna sulla faccia anteriore rappresenta significati legati al sacrificio di Cristo.

Favaro rilancia l’ipotesi scartata dalla Fasoli per l’assenza di documenti e ripropone l’ipotesi che la croce fosse stata eseguita per Campese, alla luce di testimonianze contemporanee, cioè quelle che attestano l’esistenza all’interno del monastero francese di Cluny di due stauroteche per reliquie della Croce, ma, ben più importante per il successivo trasferimento diretto dalla Terrasanta a Campese, che Ponzio, a capo della milizia cristiana con il Patriarca e il Vescovo di Betlemme nella battaglia crociata di Ascalona del 1123 avesse combattuto reggendo come bandiera la Sacra Lancia di Longino, mentre il vescovo portava il Santo Latte della Vergine, «abbas olim Cluniacensis Pontius, proferens lanceam transfixam in latere Christi; episcopus Bethleemites, ferens in pixide lacte sanctae Mariae perpetuae virginiae»[48]. Alla luce della singolare figurazione della luna e del sole, circondati da raggi sul recto della croce, sulla quale esiste una’approfondita interpretazione cristologica[49], e della lancia - non un vessillo, com’è d’uso - retta dall’Agnus Dei dipinto sul verso, Favaro ipotizza che la reliquia trasportata da Ponzio a Campese fosse un frammento della lancia di Longino, attestata nella battaglia di Ascalona e riprodotta nella croce stessa. L’ipotesi concorda con la sparizione, nelle visite pastorali di Campese, a partire dal 1592, dell’altare della Croce, attestato già nel 1173[50], e nel suo contemporaneo apparire della titolazione in un altare in Santa Maria in Colle.
Verso la fine del XII secolo e negli statuti della città del 1259, sono attestati lungo il Brenta numerosi monasteri e spazi destinati ai malesani e tra questi il monastero benedettino intitolato a San Felice e retto dalle monache di san Fortunato, dedite all’assistenza dei malati del lebbrosario. La sua fondazione è supposta in epoca longobarda ma di questa costruzione non esistono testimonianze, perché non indagate le attuali murature quattrocentesche[51](fig.9, pag. 199). Anteriormente sorgeva, sopra il colle di San Vito, il monastero omonimo. La sua fondazione è supposta nel VIII-IX secolo per opera dei benedettini di Vicenza al pari di altri cenobi dedicati a San Vito e collocati su strade consiliari romane, qual era quella che costeggiando il fiume Brenta metteva nella Valsugana e portava a Pove. Si può supporre che l’ospedale documentato negli Statuti bassanesi del 1259 in prossimità possa essere identificato con quello di più antica fondazione benedettina. I resti di un muro antico e di una scala sono stati interpretati come quelli di una torre di protezione all’edificio benedettino[52]. Del 1220 è la prima attestazione dell’esistenza di una cappella di Santa Croce, nell’area a sud della città, la cui intitolazione rimanda a una fondazione al secolo precedente e alla I Crociata[53]. Di essa non sono ricordati documenti artistici medievali.
Citata negli Statuti del 1259, la chiesa di San Pancrazio, in Margnan[54], verso il fiume, non ci tramanda documenti architettonici ma rimane a testimonianza dell’antichità di questo insediamento la parziale immagine del santo, originariamente affiancato ad altre figure sulla parete sud della chiesa[55](fig.18),

18SanPancraziocappuccinisanpancrazio

18. San Pancrazio e tracce figurate. Bassano del Grappa, fraz. Margnan, Convento dei Cappuccini, parete sud.
Testimonianza importante dell’esistenza, citata negli Statuti  del 1259, di una primitiva chiesa dedicata al martire cristiano Pancrazio, connotata stilisticamente in modi non distanti dagli affreschi di Pove.

frammento, che i caratteri del segno sul volto e la presenza di verdaccio nei primi strati pittorici confermano nella prima metà del Duecento, in modi non lontani dagli affreschi della chiesa di san Bartolomeo di Pove, altra testimonianza della presenza di pittori locali o dell’area, connotati in modi affini alla koinè trentina. il culto del santo continua peraltro ad essere attestato, e ne parleremo poi, per la sua presenza in una tavola appartenente alla rifondazione quattrocentesca, quando la chiesa passa dai Gerolimini alle monache agostiniane di san Giovanni Battista e cambia il nome in San Sebastiano[56]. Quanto poi alla presenza di pittori bassanesi operanti in città nel corso del Duecento, questa sembrerebbe confermata dal Verci, che nella sua silloge del 1775 ricorda a Bassano nel 1233 un «Martinellus pictor»[57], citazione che è evidentemente derivata da una firma in latino da lui letta in città, ed ora perduta. Legata alla prima cinta delle mura della città e quindi al secondo decennio del Trecento è l’esistenza adiacente alla porta Mazaroli o Aureola[58], della piccola edicola con l’immagine della Madonna delle Grazie (fig.19),

chiesetta

19. Fine del XIII secolo, Madonna con il Bambino come Eleusa, pittura murale. Bassano del Grappa, chiesa di Santa Maria delle Grazie.
Testimonianza di un primitivo capitello devozionale in prossimità della porta Mazaroli o Aureola, forse anteriore alla prima cinta muraria della città.

ora malamente leggibile ma nella quale la tecnica bizantina del verdaccio per le ombre del volto è emersa nel recente restauro. L’immagine fu da sempre oggetto di particolare devozione popolare anche a seguito di un fatto d’arme del 1390, a seguito del quale vi si costruì intorno un capitello, sul quale ci soffermeremo trattando degli episodi figurativi di fine Trecento. Per quanto riguarda invece la fondazione della chiesa di San Francesco (tavv.12 - 13), le precisazioni documentarie di Sartori nel 1986[59] e Signori del 1987-88, 2002 e 2004[60] hanno definitivamente riportato alla fine del Duecento le prime fasi costruttive della chiesa, eliminando le favolistiche ricostruzioni sei-ottocentesche dei cronachisti bassanesi Sale, Lugo e Chiuppani. Giambattista Verci, in particolare, nel 1775 attestava, infatti, l’esistenza nella chiesa di San Francesco di affreschi di un pittore, Guido da Bologna, che si è tentato di identificare con quel Guido Antichissimo ricordato nelle fonti bolognesi[61], citato anche dal cronachista ezzeliniano Maurisio, «Ezzelino promette alla Gran Madre di Dio l’erezione di un sacro tempio in segno di una grazia ricevuta. L’anno del signore 1177. Guido da Bologna dipinse»[62]. Particolarmente singolare appare la scelta di legare la nascita della pittura a Bassano a un artista bolognese, scelta che pare riferirsi alle letture del Purgatorio dantesco e al ricordato miniatore Franco proveniente dalla città felsinea. Nella chiesa sarebbero esistite, inoltre, distrutte nel corso della «rifabbrica del nuovo coro e struttura degli Archi» due figure ad altezza naturale di San Francesco e di Sant’Antonio, ancorate nelle descrizioni dei manoscritti settecenteschi del Chiuppani alle date del 1209 e del 1230[63]. Già il Gheno nel 1904[64], tuttavia, e contemporaneamente il Gerola, confutando, su base documentaria, la presenza di una primitiva chiesa francescana attribuita alla Madonna, ritenevano invenzioni quanto riferito dalle fonti settecentesche e la scritta una «mera contraffazione». Più recentemente chi scrive ha interpretato tutto l’episodio, comprensivo della ricostruzione grafica del Chiuppani, come uno degli episodi del mito ezzeliniano, che nei modi tipici delle ricostruzioni municipalistiche preilluministe rielabora le immagini esistenti a supporto dell’invenzione documentaria.

 

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