Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

Nel corso dell’età moderna, sotto il dominio veneziano, la Repubblica affidava il governo del bassanese ad un rettore con il titolo di podestà e capitano[1]. Il podestà, un patrizio eletto per ricoprire la carica per una durata ordinaria di sedici mesi, era il referente dei consigli e delle magistrature della capitale, che si rivolgevano a lui per ottenere informazioni sulla situazione locale e perché fossero applicate e fatte rispettare le loro decisioni. Di persona, o attraverso officiali del suo seguito, il podestà amministrava la giustizia criminale e civile sul centro urbano e sulle comunità del territorio, prendendo decisioni che potevano influenzare i più diversi ambiti della vita politica, economica e sociale degli abitanti del bassanese. Purtroppo la perdita dell’intero archivio della podesteria impedisce di valutare appieno l’importanza di questo aspetto dell’attività del rettore, che costituiva una dimensione fondamentale dell’amministrazione urbana. Al podestà era inoltre riservato il potere di provvedere a circostanze eccezionali, che richiedevano una deroga temporanea alle norme contenute negli statuti e a quelle approvate da Venezia. Il podestà e capitano di Bassano si trovava in una condizione particolare, anche se non unica, nel quadro del governo veneziano della Terraferma, situazione che rifletteva la posizione ambigua del centro pedemontano nella gerarchia urbana dell’epoca. Infatti i rettori veneziani delle principali città venete, in genere due patrizi che si spartivano le cariche e le competenze di podestà e capitano, dovevano confrontarsi con un sistema assai articolato di magistrature comunali, che esercitavano sui centri urbani e sul loro territorio una molteplicità di funzioni, alcune ereditate dall’era delle signorie, altre acquisite in seguito alla dedizione alla Serenissima. Si trattava di poteri tutt’altro che insignificanti, che consentivano alle elites urbane di alcuni dei capoluoghi della Terraferma di interferire nell’esercizio dell’autorità che lo Stato aveva conferito ai rettori, compreso l’ambito più importante e più gelosamente custodito di essa, l’esercizio della giustizia criminale[2]. Chi invece veniva inviato a governare un centro minore, si trattasse di un patrizio veneziano come avveniva nel Trevigiano e nel Padovano, o di un esponente dell’aristocrazia di Terraferma, com’era più comune nel Vicentino e nel Veronese, riceveva poteri assai limitati ed era soggetto ad una supervisione più o meno stretta da parte delle autorità del capoluogo dal quale si trovava a dipendere. Il podestà e capitano di Bassano invece non era subordinato ai rettori di uno dei centri maggiori con i quali confinava la sua giurisdizione e non doveva spartire i suoi poteri con un collega, non poteva trovare nelle competenze dei magistrati comunali, dotati della sola giurisdizione civile su cause di modesto valore, un ostacolo alla sua azione. Estesa e sottoposta a pochi condizionamenti a livello locale, l'autorità del rettore di Bassano si scontrava solo con i limiti posti dalla carenza delle risorse, umane e materiali, messe a sua disposizione dalla Repubblica e dagli interventi delle magistrature e dei consigli della capitale. Come ogni altro rettore inviato da Venezia a governare un centro di Terraferma, il podestà e capitano di Bassano doveva raccogliere attorno a sé un gruppo di collaboratori dotati delle competenze necessarie per ricoprire le diverse cariche, offici e mansioni dipendenti dalla podesteria. Il più importante tra loro era il vicario, un esperto in diritto in grado di sostituire il podestà nella istruzione e nel dibattimento delle cause civili e penali e di garantire il quotidiano funzionamento dell’amministrazione a prescindere dalle capacità e dall’impegno del rettore, che specie nell’ultimo secolo di vita della Repubblica lasciavano spesso a desiderare. Altro importante componente dell’amministrazione era il cancelliere che, coadiuvato da alcuni notai, doveva curare il buon ordine e la conservazione dell’archivio in cui si conservavano le sentenze civili e criminali e tutta la corrispondenza ufficiale con le magistrature della capitale. Il podestà aveva ai suoi ordini un cavaliere, coadiuvato da un vice-cavaliere, che erano a capo di uno sparuto gruppo di ministri a cavallo e a piedi[3]. La mancanza di forze di polizia adeguate ad assicurare un effettivo controllo del territorio costituiva il principale ostacolo con cui si scontrava l’azione del podestà di Bassano nel suo compito di eseguire e di garantire l’applicazione degli ordini e delle istruzioni che gli giungevano di giorno in giorno da Venezia. Oltre ai ministri posti sotto il diretto comando dei loro cavalieri, i rettori delle principali città della Terraferma potevano contare su una compagnia di campagna col compito di intervenire nel territorio, supportata in caso di bisogno da contingenti di truppe. Tra queste le milizie albanesi a cavallo, i cappelletti, venivano considerati il deterrente più efficace per reprimere la delinquenza, catturare o mettere in fuga i banditi che infestavano le strade e ridurre, almeno temporaneamente, l’attività dei contrabbandieri. La mancanza di un contingente di questi soldati di stanza nel centro urbano costituiva un grave elemento di debolezza per il governo veneziano del bassanese, in particolare se si tiene conto della difficoltà di controllare le zone montuose di confine con il principato vescovile di Trento ed il lungo confine con il territorio vicentino segnato dal corso del Brenta. La vita politica cittadina nella Bassano dell’età moderna aveva al suo centro l’attività dei consigli del comune: all’interno delle assemblee si discutevano e votavano provvedimenti che, una volta approvati, sarebbero stati vincolanti per tutti i cittadini, venivano assegnate le cariche e gli impieghi pubblici, si esaminavano le suppliche e le richieste avanzate da enti o da singoli cittadini, rurali e forestieri[4]. In una pluralità di materie, dall’approvvigionamento di cereali tramite il Fontico dei grani, alla concessione di credito da parte del Monte, all’assistenza ai poveri attraverso elemosine e l’opera di supervisione e di indirizzo svolta dal comune sugli ospedali e sugli enti di beneficenza, alla regolamentazione dei mercati e dell’esercizio di mestieri e professioni, le decisioni prese nel consiglio avevano ricadute dirette sulle condizioni di vita degli abitanti del bassanese. Inoltre in un centro privo di una consolidata tradizione aristocratica, dove sino al Settecento erano pochissime le persone che potevano fregiarsi di titoli comparabili a quelli sfoggiati dalle principali casate delle maggiori città venete, far parte del consiglio rappresentava un’importante forma di distinzione sociale. Ma le peculiarità delle istituzioni comunali bassanesi contribuirono a far sì che per un lungo periodo l’appartenenza a queste assemblee e la partecipazione alla vita politica urbana non si traducessero in una netta linea di demarcazione tra un’elite privilegiata e la maggioranza dei cittadini. La Bassano cinquecentesca aveva ereditato dal tardo medioevo un sistema di governo articolato in un Maggior consiglio di trentadue cittadini e da un Minor consiglio, detto anche Banca, di cui facevano parte i principali magistrati del comune, i due sindaci, i due giudici alla ragione ed i quattro consoli, tutti eletti tra i membri dell’assemblea più numerosa[5]. Tra i componenti della Banca i più importanti erano i sindaci, in carica per un anno, che assumevano un ruolo di rappresentanza del comune e seguivano quotidianamente l’andamento delle controversie e delle questioni di pubblico interesse, salvo eccezioni dovute alla presenza di qualche personalità di particolare rilievo tra i giudici e i consoli. Questi ultimi venivano comunque rinnovati ogni tre mesi e quindi il compito di garantire continuità all’azione del comune, sia nella gestione dell’amministrazione urbana che nei rapporti con le autorità veneziane, ricadeva sui sindaci. Oltre ai componenti della Banca il Maggior Consiglio eleggeva al suo interno numerosi altri magistrati di diversa importanza, dai Provveditori alla sanità in tempo di peste ai Giudici di fiera, ed assegnava una varietà di incarichi, oltre a nominare un numero variabile di messi comunali e di dipendenti pubblici. Il cambiamento di maggior portata nella struttura istituzionale del comune di Bassano del Cinque e Seicento si verificò nel 1589, quando il podestà Lorenzo Cappello, su pressione dei “popolari”, introdusse un nuovo consiglio formato da sessanta cittadini (fig.1).

1LeandroBassano

1. Leandro Bassano, Il podestà Lorenzo Cappello con i figli inginocchiato davanti alla Madonna in trono con il Bambino tra i Santi Clemente e Bassiano (particolare), 1590. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, inv. 27. Il podestà, un patrizio eletto per ricoprire la carica nella città prescelta per una durata ordinaria di sedici mesi, era il referente dei consigli e delle magistrature della capitale. Qui Lorenzo Cappello, podestà di Bassano tra il 6 febbraio 1589 e l’8 giugno 1590.

Di questa assemblea avrebbero fatto parte i membri del vecchio Maggior consiglio, che non scomparve ed anzi mantenne la sua denominazione, ma dovette cedere al nuovo organismo una parte delle sue competenze: avrebbe conservato il diritto di nominare i magistrati, gli officiali e di dipendenti comunali e ad emanare provvedimenti per regolare i diversi aspetti della vita cittadina, mentre l’autorità di decidere su questioni che comportavano delle spese per il comune e sull’imposizione di tasse locali passava al consesso più allargato. In questo modo la riforma Cappello tentava di porre rimedio alla gestione poco chiara delle finanze comunali e alla tendenza a far fronte alle spese imponendo nuove tasse ed intaccando il patrimonio della città che aveva caratterizzato l’amministrazione nel ventennio precedente. Il rinnovo dei consigli avveniva all’inizio di agosto per mezzo di una procedura di cooptazione con la quale un gruppo di consiglieri sceglieva i propri successori. Una commissione formata dal podestà, dai componenti della Banca in carica e da otto elezionari, designati da altrettanti consiglieri estratti a sorte, formulava le candidature per il consiglio dell’anno successivo, che dovevano quindi essere approvate una ad una dalla maggioranza dei voti dell’assemblea uscente. Dopo il 1589 questo meccanismo venne adattato al nuovo assetto dei consigli, mantenendo immutata la composizione della commissione elettorale, che ora avrebbe indicato i nomi dei candidati al Consiglio di sessanta, trentadue dei quali, i più votati quartiere per quartiere, sarebbero poi entrati a far parte del Maggior Consiglio.   La riforma di Lorenzo Cappello fissò gli assetti istituzionali della amministrazione bassanese per oltre un secolo e l’intervento dei rettori di Padova nel 1678 non alterò, nelle sue linee generali, la procedura di elezione dei consiglieri: il proposito di introdurre requisiti più restrittivi per l’accesso alle cariche si scontrò, come ammisero gli stessi magistrati patrizi, con la constatazione che in questo modo sarebbero state escluse dal consiglio casate che vantavano una lunga tradizione nell’amministrazione cittadina, ma che avevano la maggior parte dei loro beni fuori dal territorio, nel vicentino o nel trevigiano. A partire da Brentari, ma con maggior enfasi nei saggi di Baldino Compostella nella prima metà del secolo scorso, gli studi sulla politica e sull’amministrazione nella Bassano dell’età moderna hanno accreditato l’immagine di una realtà pressoché immobile, dominata sin dal primo Cinquecento da un’oligarchia chiusa che, forte del sostegno delle autorità veneziane, avrebbe monopolizzato le cariche comunali ed escluso dalla partecipazione al governo locale il resto della cittadinanza e del popolo[6]. Questa interpretazione, che pure coglie importanti elementi strutturali della società e della politica veneta e bassanese in età veneziana, non rende per conto di altri aspetti, quali il fazionalismo e la conflittualità interna al ceto dirigente, che assunsero un ruolo di primo piano in fasi cruciali per l’evoluzione delle istituzioni e degli equilibri politici locali. Un’analisi della composizione dei consigli bassanesi, condotta attraverso sondaggi su sequenze pluriennali di elezioni e selezionando periodi particolarmente significativi per la politica locale o in corrispondenza della disponibilità di altre fonti che possano gettare luce sull’attività e gli interessi delle persone che partecipavano all’amministrazione del comune urbano, porta in evidenza dei cambiamenti di rilievo nei processi di rinnovo delle assemblee. Un elemento comune all’intero periodo compreso tra la riforma del consiglio operata nel 1589 dal podestà Lorenzo Cappello ed i primi anni del Settecento è il maggior ricambio annuale che si verificava tra i membri del consiglio dei sessanta che non facevano anche parte del più ristretto consiglio dei trentadue, cui spettava il compito di eleggere le cariche comunali. Chi era eletto nei sessanta ma non riusciva ad entrare nei trentadue aveva una probabilità di ritrovarsi escluso dai consigli l’anno successivo nettamente superiore a quella che correvano i suoi colleghi dell’assemblea più ristretta. Com’è ovvio ogni elezione aveva la sua storia, con risultati che corrispondevano a rapporti di influenza e di clientela che normalmente sfuggono del tutto alla documentazione e sui quali è possibile trovare qualche traccia solo in occasione di fasi di aperto scontro, come quella. Ma già dall’esame delle elezioni condotte tra il 1596 e il 1703 si può constatare come la riforma Cappello non costituì un semplice allargamento di un sistema chiuso, in quanto anche a distanza di alcuni anni dalla sua prima applicazione il ricambio interno ai consigli si mantenne su valori relativamente elevati. Il periodo compreso tra il 1618 e il 1620 si caratterizza comunque per una marcata stabilità nella composizione delle assemblee comunali. Pochi tra i membri dei consigli non vengono riconfermati da un anno all’altro, mentre si osserva una mobilità relativamente intensa in entrambi i sensi tra il Maggior Consiglio di trentadue membri e il Consiglio dei sessanta. Ma è soprattutto l’altra percentuale di membri di quest’ultima assemblea rieletti o promossi tra i trentadue a segnare la differenza rispetto alla fase successiva. La peste del 1631 provoca un notevole ricambio all’interno dei consigli. Ma è significativo notare come negli anni successivi, mentre il numero dei consiglieri dei trentadue che vengono confermati di anno in anno resti elevato, la percentuale dei membri del consiglio dei sessanta rieletta si ponga ad un livello assai basso. A più riprese negli anni successivi oltre la metà dei consiglieri dei sessanta non viene rieletta. Allo stesso tempo la mobilità tra i due consigli, dopo le punte raggiunte durante e nel periodo immediatamente dopo la peste, si riduce sin quasi ad annullarsi, tanto che nel corso degli anni quaranta del Seicento un consigliere dei trentadue ha maggiori probabilità di essere del tutto escluso dalla vita politica urbana che di essere “degradato” tra i sessanta. Queste caratteristiche del processo di rinnovo dei consigli non costituiscono una semplice risposta all’epidemia, perché l’analisi delle elezioni condotte tra il 1682 e il 1685 rileva dinamiche del tutto simili a quelle viste in opera negli anni quaranta. Va però sottolineato come questa scarsa mobilità tra il consiglio dei sessanta e quello dei trentadue sia un fenomeno limitato al breve periodo, in quanto un confronto condotto su scala pluridecennale dimostra che era possibile, dopo un apprendistato condotto nei sessanta, entrare a far parte in modo più o meno stabile dei trentadue e raggiungere le cariche di vertice della comunità.
Al di là dei risultati di questa analisi esplorativa, che dovrebbe essere estesa e approfondita prima di trarre conclusioni ultimative sulle dinamiche del ricambio all’interno dei consigli bassanesi, è significativo notare come solo un numero ristretto di famiglie potesse vantare una rappresentanza continua ed ininterrotta nella politica locale. Un fenomeno che non si può ricondurre esclusivamente a fattori di carattere demografico – la mancanza di maschi adulti in grado di entrare in consiglio – ma che rimanda alla capacità del sistema politico e istituzionale bassanese di integrare rapidamente le numerose famiglie di mercanti e di esponenti delle professioni liberali attratte in loco dalla crescita economica del centro pedemontano. Tutto questo mantenendo, beninteso, una forte presenza da parte di casate di lunga tradizione consiliare e capaci di conservare adeguati livelli di patrimonio e di tenore di vita in un arco di tempo pluridecennale.TAB-1-FAMIGLIETAB-2-FAMIGLIETAB-3-FAMIGLIE.pngTAB-4-FAMIGLIE.pngUn altro aspetto dell’interpretazione consolidata sulla politica bassanese in età moderna che va sottoposto a revisione è quello che individua la causa dei conflitti e delle tensioni sulla struttura e composizione dei consigli comunali nella contrapposizione tra nobiltà e popolo. Se questa lettura può valere, in qualche misura, per gli eventi che tra il 1588 e il 1589 portarono alla riforma Cappello, i contrasti sulla serrata dei consigli che tra la fine del Seicento ed il primo quarto del Settecento si fecero sempre più aspri sembrano aver origine prevalentemente all’interno delle stesse assemblee comunali. Al di là del problema di come classificare la figura del principale oppositore della chiusura aristocratica, Natale Tonacini, eletto egli stesso nel 1703, la ripetuta bocciatura o il ritiro prima del voto dei progetti di serrata elaborati tra il 1703 e il 1707 manifesta l’esistenza di profonde divisioni all’interno dei consigli. Scartata nel 1703 una prima proposta di serrata che avrebbe aperto le porte del consiglio a chiunque potesse rivendicare la discendenza da una persona eletta a far parte dei consigli bassanesi, anche nel passato più remoto, e che verosimilmente avrebbe portato l’assemblea a contare ben più di un centinaio di membri, nel 1704 il sindaco Giacomo Roberti preparò una bozza di delibera per l’allargamento del consiglio da 60 a 100 membri, che poi sarebbero rimasti in carica a vita, lasciando poi il seggio a figli ed eredi[7]. Ancor prima di essere sottoposto all’assemblea, il progetto del Roberti si scontrò con la decisa opposizione dell’altro sindaco, Alessandro Romano, e di un gruppo di consiglieri in cui erano compresi esponenti delle famiglie Bellavitis, Brocchi, Compostella, Fossa, Lanzarini e Salvioni[8]. Si trattava di casate che potevano vantare una lunga tradizione, in alcuni casi plurisecolare, di partecipazione alla vita pubblica bassanese e che a differenza dei Tonacini non possono in alcun modo essere definite popolari. Lo scontro si fece ancor più aspro nell’agosto successivo, in occasione del rinnovo dei consigli. Il podestà in carica, Carlo Zane, sostenne caparbiamente la candidatura del Roberti, scontrandosi con il gruppo di consiglieri che nella primavera precedente si era opposto al progetto di riforma elaborato dall’ex-sindaco. Col risultato di provocare una situazione di stallo nella procedura di elezione che non aveva precedenti da prima della riforma Cappello e che si poté risolvere solo con l’intervento delle magistrature della capitale e la conseguente nomina diretta da parte del podestà di Treviso Pietro Maffetti dei consiglieri che non si era riusciti ad eleggere per via ordinaria. Ma le discussioni e le contrapposizioni che avevano segnato primavera ed estate del 1704 erano tutt’altro che superate, tanto che negli anni successivi all’intervento del Maffetti si fece più aperta e decisa la denuncia dei disordini e delle tensioni che accompagnavano il rinnovo annuale dei consigli[9]. La questione della serrata del consiglio venne riproposta nel 1707, ma il progetto suscitò forti opposizioni già nel ristretto ambito della Banca e le due ipotesi alternative, una delle quali riprendeva quella presentata nel 1703 ma mai discussa dall’assemblea, vennero entrambe bocciate dalla maggioranza dei membri del consiglio dei Sessanta.   A dividere i consigli non era l’idea della serrata, ma le modalità secondo le quali questa sarebbe stata messa in pratica. Nel clima di accesa conflittualità e forte competizione per l’accesso ai consigli che caratterizzava i primi anni del Settecento, molti consiglieri non volevano correre il rischio di essere esclusi in perpetuo dalla nuova assemblea, i cui componenti sarebbero rimasti in carica a vita, limitando le occasioni di nuove aggregazioni alla sostituzione delle casate rimaste prive di una discendenza maschile.   Lo stallo fu risolto solo nel 1726 con un intervento veneziano in occasione delle indagini condotte su un grosso intacco al Monte di Pietà. Il podestà di Treviso Benedetto San Giovanni Toffetti, incaricato di riformare la gestione del Monte, dispose l’abolizione del Maggior Consiglio di trentadue membri ed il passaggio delle sue competenze al Consiglio di sessanta, stilando allo stesso tempo l’elenco delle famiglie e delle persone abilitate a parteciparvi[10]. La soluzione adottata dal Toffetti non veniva incontro del tutto alle esigenze del gruppo dirigente cittadino, perché, pur definendo per la prima volta chi poteva partecipare alla vita politica urbana e chi no, manteneva una forma di ricambio interno al Consiglio, con l’uscita dalla carica di un quarto dei membri ogni anno e la loro sostituzione con nuovi eletti, conservando sia pure in forma diversa rispetto al passato un sistema di elezioni che era stato all’origine di clientelismi e tensioni. Ma è solo da questo momento che la nobiltà bassanese comincia ad acquistare una forma più definita, riceve una sua legittimazione formale e comincia a distaccarsi dal resto della cittadinanza. Da quanto detto sinora appare chiaro come molto resti da indagare sull’effettivo funzionamento del governo e dell’amministrazione nella Bassano del periodo veneziano e sulla struttura, sulle dinamiche e sui confini di un ceto dirigente e di una società urbana che, pur inserendosi in un quadro istituzionale, sociale ed economico ben conosciuto a livello regionale, presenta delle peculiarità che la differenziano in misura significativa dalla realtà dei centri maggiori della Terraferma. Ciò non significa affermare che Bassano abbia costituito un caso a sé all’interno dei dominii italiani della Repubblica di Venezia, ma piuttosto riconoscere come la compresenza di caratteri tipici dei centri minori, vicariati e podesterie soggette al controllo di una grande città, e di altri aspetti più comuni in contesti urbani di maggiori dimensioni e prestigio, interagendo tra loro in un territorio periferico e ai confini dello Stato, abbiano contribuito a creare una realtà per molti aspetti originale ma al tempo stesso strettamente integrata nel mondo che la circondava. L’ambiguo legame con Treviso, ad esempio, da un lato non intaccava in modo significativo l’autonomia di Bassano, dall’altro consentiva agli abitanti del centro pedemontano maggiori margini di manipolazione ed elusione della normativa daziaria. L’apertura dei consigli cittadini e l’assenza sino al 1726 di un ceto dirigente dai confini legalmente definiti rese assai più facile e rapida l’integrazione nell’elite locale di mercanti e imprenditori giunti numerosi nel Cinquecento e nel Seicento sull’onda della crescita manifatturiera di Bassano.

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