Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

Nella storia della Riforma in Italia il nome di Bassano vanta titoli non secondari. È di Bassano uno dei primi dissidenti, il benedettino cassinese don Simeone, al secolo Francesco Negri (1500-1563)[1], che valica le Alpi per vivere liberamente le proprie convinzioni religiose; il primo in assoluto, anzi, tra i molti appartenenti al clero regolare che nei decenni centrali del Cinquecento abbandoneranno l’Italia spontaneamente o per sfuggire alla repressione del potere religioso e secolare. Ed è ancora di questo bassanese la Tragedia del libero arbitrio(fig.1),

1FrancescoNegri

1. Francesco Negri, Tragedia del libero arbitrio, 1547. Si tratta di uno dei testi riformati più diffusi nella penisola, che esercitò una enorme influenza persino su semplici artigiani, divenendo strumento di conversione religiosa.

uno dei testi riformati più diffusi nella penisola e presto anche all’estero, che al di là dell’opaca resa letteraria esercita un enorme ascendente persino su semplici artigiani, che ne ascoltano i non facili contenuti «nelle botteghe durante le ore di lavoro»[2], divenendo strumento di conversione religiosa persino per chi si orienta verso il radicalismo anabattistico. Diffusissima la Tragedia, ma non quanto il più celebre e rappresentativo manifesto della Riforma in Italia, il Beneficio di Cristo, il cui primo autore, il cassinese mantovano Benedetto Fontanini, nel 1552 soggiornerà nel piccolo monastero di Santa Croce di Campese, a poche miglia da Bassano, unitamente a un altro celebre benedettino, Luciano degli Ottoni, relegatovi come il Fontanini per decreto dei superiori e dell’Inquisizione e morto dopo pochi mesi, scendendo nella tomba accanto a un altro famoso, inquieto cassinese, Teofilo Folengo, qui confinato alcuni anni prima. Un piccolo sacrario, Campese in quel di Bassano, non solo del mondo benedettino, ma di tutto il cosiddetto evangelismo italiano, che anima intorno alla metà del Cinquecento la vita religiosa dell’intera penisola[3].   Due anni prima, nel 1550, ancora per opera di Francesco Negri si inaugurava il martirologio della Riforma italiana, nel nome oltre che del faentino Fanino Fanini, anche di un bassanese, Domenico Cabianca (1520 ca-1550); di più: il Cabianca, come ricorda Federico Chabod, era il «primo martire che consacrava la sua fede religiosa con il sacrificio della vita nello Stato di Milano»[4]. Non meno conosciuto negli annali della Riforma, anch’egli vittima della repressione dell’Inquisizione, un altro bassanese, Alessandro Gecchele; «il Bassan», come veniva chiamato dalla gente al confine orientale d’Italia, prima di essere catturato a Gorizia e poi estradato a Roma nel 1573, per essere bruciato vivo l’anno seguente: non a inaugurare il martirologio riformato, questa volta, ma a segnare la fine della movimentata vicenda dell’anabattismo in Friuli[5]. Una presenza vistosa, dunque, quella del nome di Bassano, nella travagliata storia della Riforma italiana; eppure, facendo caso ai testé menzionati personaggi, va rilevata la loro estraneità alla vita della città veneta, e non solo dei monaci relegati a Campese, che nessun documento ci ricorda in rapporto con il mondo civile e religioso bassanese, ma degli stessi Francesco Negri, Domenico Cabianca e Alessandro Gecchele, la cui biografia religiosa li vede agire lontano dal paese d’origine. Il Negri matura la sua conversione al messaggio luterano nel monastero padovano di Santa Giustina e approfondisce la sua preparazione teologica nella zwingliana Strasburgo alla scuola di Capitone e di Bucero, trovando infine una quasi stabile dimora a Chiavenna. E a Bassano non tornerà, neppure nei due viaggi che compie nel Veneto, nel 1530 e nel 1550[6]; «per la grazia de Dio, non abbiamo ancora bisogno de ritornare a Bassano et far metter li nostri panni in un forno caldo per netarli da li pedochi», scrive nel gennaio 1538 al concittadino Bartolomeo Testa (fig.2),

2FrancescoNegriLetteraBartolomeo

2. Francesco Negri, Lettera a Bartolomeo Testa, 1538. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, Epistolario Remondini, XVI.18.4382. Negri scrive nel gennaio 1538 al concittadino Bartolomeo Testa, pregandolo, se «ha qualche cosa da novo cerca [circa] essi bassanesi», di dargliene «aviso, perche son desideroso di intender come passano le facende in quelli paesi».

pregandolo, se «ha qualche cosa da novo cerca [circa] essi bassanesi», di dargliene «aviso, perché son desideroso di intender come passano le facende in quelli paesi»[7]. «Quelli paesi», è però chiaro, gli sono in fondo estranei; ora la sua patria, civile e religiosa, sono Augusta, Strasburgo, Tirano, Chiavenna, e poi la più libera Polonia, nella piccola comunità italiana a Pinczow, dove dirige un’ecclesiolam italicam, per poi morire di peste a Cracovia l’anno seguente, durante il viaggio di ritorno nella terra dei Grigioni. Così è per il Cabianca arrestato a Piacenza e lì giustiziato; e non diversamente per Alessandro Gecchele, processato prima a Gorizia e poi a Roma. Per Bassano «il vento del nord» sembra fermarsi alle porte delle sue mura, senza turbare il tradizionale trascorrere della vita religiosa, i riti del calendario liturgico romano, le festività locali. Il clero secolare e regolare svolge senza vistose innovazioni il ruolo religioso e sociale di sempre; rari e non traumatici gli scandali dei monasteri femminili; la devozione, ravvivata saltuariamente da predicatori della Quaresima e dell’Avvento, è incanalata nelle varie confraternite che registrano affollate iscrizioni, senza tuttavia dar segni di intensa vita spirituale. La comparsa lungo il Cinquecento di nuovi ordini e congregazioni religiosi, in particolare i cappuccini, testimonia una religione volta più alle opere che alla fede che giustifica[8]. Non che le voci della rivolta luterana negli anni Venti e le allarmanti notizie delle sommosse popolari politico-religiose del vicino Tirolo non si facciano sentire in Bassano, terra di mercanti e luogo di passaggio dai paesi tedeschi all’emporio realtino, ma il compatto silenzio in merito delle fonti sembra voler rassicurare che la pianta velenosa dell’eresia qui non attecchisce. Così almeno stando alla più recente storia religiosa di Bassano, quella di Giovanni Mantese, Bassano nella storia. La religiosità, del 1980, secondo la quale non c’è traccia di forme di dissidenza ereticale nel Cinquecento bassanese; e nella Storia di Bassano, dello stesso anno, la sezione La vita religiosa dalle origini al XX secolo, vi riserva un generico paragrafo di neppur mezza pagina, con un reticente accenno agli eremitani del convento di Santa Caterina e quattro righe al «bassanese di nascita» Francesco Negri[9]. Indubbia la carenza di documentazione, anche se poi non così compatta, per la Riforma in Bassano, tanto che a volerne trattare si è obbligati a ripiegare su quei personaggi «estranei», senza stare a disquisire a quale titolo essi rientrino in una storia della religiosità della città. Doverosa dunque su di loro una sosta, ma breve, per non ripetere cose notissime, al più con qualche aggiornata precisazione su alcune tradizionali erronee notizie storiche[10]. È questo il caso di Teofilo Folengo e della sua tomba, che aveva ben presto reso celebre Campese, come testimoniava Alessandro Tassoni nel primo Seicento («Campese, la cui fama all’Occidente / e a termini d’Irlanda e del Catajo / stende il sepolcro di Merlin Coccaio»)[11]. È solo frutto della tradizione monastica tardo-cinquecentesca la data di morte al 9 dicembre 1544, e ancor meno documentabile è il periodo del suo soggiorno (esilio?) in Campese, forse di pochi mesi[12]. Personaggio dalla vita intensa e travagliata, attento al dibattito religioso del suo tempo, come attestano le sue opere, comprese quelle profane; le epigrafi del sepolcro testimoniano un sentito motivo d’orgoglio nell’ambito monastico, ma la sua memoria non va esente da pesanti accuse di eresia, come quella del benedettino di Santa Giustina, don Germano, che nel 1573 denuncia al Sant’Ufficio di Roma le «molte eresie» presenti nell’Orlandino; né c’era da stupirsene, osserva malevolmente, essendo l’autore «tanto a Erasmo affetionato»[13]. Poco più a lungo aveva sostato nel monastero di Campese il già ricordato don Benedetto Fontanini, l’autore del Trattato utilissimo del beneficio di Giesù Cristo crocifisso verso i christiani, uscito anonimo alle stampe la prima volta a Venezia nel 1543 e diffuso in decine di migliaia di copie, ma ben presto inserito tra i libri proibiti. La sua segregazione a Campese non era tuttavia conseguenza del Beneficio, della cui paternità si sapeva solo in una ristretta cerchia di fedelissimi, ma della grave imprudenza di tenere presso di sé il Libro grande dell’ex cassinese Giorgio Siculo, quando ormai si stava procedendo, nel settembre del 1550, alla sua cattura da parte del tribunale dell’Inquisizione di Ferrara, a cui sarebbe seguita l’esecuzione capitale nel maggio dell’anno seguente[14]. Trovato in possesso di quelle compromettenti carte, il Fontanini era stato incarcerato a Verona e solo nel 1552 si decretava la sua liberazione, trasferendolo nel monastero di Campese («D. Benedictus Fontaninus liberatus est a carcere [...] et deputetur Campesii», come si legge nell’ordinanza del capitolo generale della Congregazione cassinese[15]). Lo raggiungerà intorno alla metà del 1552 – lo si è già detto – un altro benedettino, anche lui implicato nell’affare del Siculo, Luciano degli Ottoni da Goito, personalità di spicco nell’Italia religiosa del Cinquecento. Allontanato dal monastero di San Benedetto Po, di cui era abate, in considerazione anche delle sue condizioni di salute i superiori della Congregazione, «absolutus ab omni gradu superioritatis», ne decretavano il confino a Campese (« et stabit in loco Campesii»). Per alcuni mesi i due grandi benedettini vivranno insieme nel piccolo monastero sulla sponda destra del Brenta presso Bassano[16]. Qui non conta soffermarsi sulla dottrina mistica di Giorgio Siculo, e meno ancora sul contenuto del Beneficio di Cristo. Ma a prescindere dal contatto tra le due sponde del Brenta (ed è ragionevole pensare che quei monaci relegati per dottrine eterodosse si guardassero bene dal farvi opera di proselitismo), va osservato che di quel «dolcissimo» trattatello non c’è traccia in Bassano[17]; né alcuna eco sembra giungere sulla vicenda di Giorgio Siculo, che dal 1547 è a Riva del Garda, in attesa di poter intervenire al concilio di Trento. Un altro cassinese interessa la storia di Bassano, il già menzionato Francesco Negri. Lasciata diciassettenne la sua città per il monastero di San Benedetto Po, romperà ogni rapporto con la Chiesa cattolica, con la Congregazione cassinese, con la sua stessa famiglia, con Bassano, quando nel 1525, passate le Alpi, pur tra notevoli difficoltà economiche, vivrà una nuova esistenza, con una sua nuova famiglia, in un’altra Chiesa e in un’altra patria. Con il mondo bassanese non ha più motivo d’incontro, né di scontro: è terra anch’essa dell’Anticristo. Ben più profondi i rapporti, sia pur conflittuali, con i monaci cassinesi e con il mondo da essi rappresentato del cosiddetto evangelismo o degli spirituali, nel vivace dibattito sul grande tema della giustificazione per sola fede. È guardando a quel mondo della religiosità italiana che meglio si comprendono alcuni aspetti della rigida personalità del Negri, anzitutto la violenza grevemente accusatoria degli abusi della Chiesa romana, colpevole del tradimento del messaggio evangelico; un fare aggressivo che sostanzia tanto la De Fanini Faventini ac Dominici Bassanensis morte, qui nuper ob Christum in Italia Romani Pontificis iussu impie occisi sunt, Brevis historia, quanto la diffusissima Tragedia del libero arbitrio[18]. Tuttavia questo aspetto pesantemente polemico dell’opera del Negri non deve mettere in ombra quello più profondo dell’affannosa ricerca di una Chiesa dogmaticamente aderente al testo biblico, senza elucubrazioni scolastiche, visibile, compatta, da opporre alla degenerata Chiesa romana. Di qui la sua preziosa, anche se scarsamente concludente, attività di mediazione tra il mondo luterano e quello zwingliano. Una ricerca di unità delle confessioni riformate, che non gli impedirà di lasciare nel 1562 i Grigioni per recarsi con il figlio Giorgio in Polonia, in vista di una chiesa più pura e più libera, da proporre a modello di tutte le altre chiese. Una chiesa visibile, in cui vivere apertamente il messaggio cristiano libero dai falsi idoli impersonati, nella Tragedia, dal monacato, dal culto dei santi, dalla fabbrica dei luoghi pii, dalla penitenza, dal digiuno, dalla messa[19]. Inutile osservare l’enorme distanza della Tragedia dallo spirito del Beneficio, alieno non solo da ogni motivo polemico, ma soprattutto pericolosamente orientato verso un’esperienza affatto interiore, valdesianamente vissuta in una chiesa tutta spirituale, con la conseguente dolorosa accettazione, se non persino approvazione, di un comportamento nicodemitico, fatto di riserve mentali, di eccessive prudenze, di un quotidiano ricorso a variegate forme dissimulatorie. Convinzioni che muovono il Negri a inserire nella nuova edizione del 1551 della Tragedia, dove le iniziali del nome F.N.B. vengono ora sciolte in Francesco Negro Bassanese, un attacco di inaudita violenza contro quanti, in Italia, pur illuminati sulla dottrina della giustificazione per sola fede, non ne traevano le giuste conseguenze, rimanendo irretiti in un «miscuglio di cose christiane et papistice»[20](fig.3).

3FNB

3. F.N.B. (Francesco Negro Bassanese), Tragedia del libero arbitrio, 1551. Nella nuova edizione del 1551 Negro indirizza un attacco di inaudita violenza contro quanti, in Italia, rimanevano irretiti in un «miscuglio di cose christiane et papistice».

Un’intransigenza, che non distingueva neppur più tra inquisiti e inquisitori, e tacciava di viltà e di opportunismo, di starsene comodamente seduti «sopra due selle», quanti, grandi prelati, illustri dotti, severi monaci, tra mille difficoltà tentavano una riforma all’interno della Chiesa romana[21]. Vien da chiedersi se, nel suo feroce attacco al nicodemismo, il Negri guardasse con disdegno anche alla inerte vita religiosa della sua città d’origine. Un’accusa che non toccava certo quel pellicciaio bassanese già ricordato, Domenico Cabianca, che a Piacenza aveva sfidato senza titubanze le autorità religiose e secolari, predicando in due giorni consecutivi dinanzi a un vasto pubblico con in testa una berretta da prete a eloquente dichiarazione della dottrina del sacerdozio universale dei credenti. Arrestato, processato e torturato, veniva impiccato il 10 settembre 1550 per ordine del governatore di Milano Ferrante Gonzaga. Poche settimane dopo, in Chiavenna, Francesco Negri ne redigeva una memoria, che mandava alle stampe col titolo De Fanini Faventini ac Dominici Bassanensis morte ecc., riproponendo i temi messi sotto accusa nelle due prediche: la confessione, il purgatorio, le indulgenze, la messa, ed esaltando la giustificazione per sola fede. Era morto, ricordava il concittadino bassanese, senza alcuna ritrattazione, dichiarando di voler morire per la verità[22]. Bassanensis, lo qualificava il Negri, ma da Bassano si era allontanato, arruolandosi nell’esercito imperiale contro la lega di Smalcalda, e lì era passato alla fede riformata. A Piacenza era giunto da Napoli, dopo aver predicato in borghi e villaggi d’Italia, ma senza probabilmente passare per la sua città natale. Né a Bassano era tornato Alessandro Gecchele, dopo aver lasciato il Veneto per la Moravia, centro di comunità anabattistiche, intorno alla metà degli anni Cinquanta. Dalla nuova patria d’oltralpe negli anni Sessanta ritornava in Italia, avendo per ispirazione divina «lasciato la moglie et i figlioli», per diffondere la nuova fede nelle campagne del Friuli orientale. Sotto le spoglie di un merciaio, andava da una fiera all’altra diffondendo il suo credo anabattistico fortemente antiromano, contro preti e frati, in favore di una chiesa degli eletti, i ribattezzati, tutti sacerdoti del verbo di Cristo attinto attraverso una lettura diretta del Nuovo Testamento; una fede pura, senza complicazioni dogmatiche trinitarie e cristologiche, libera e tollerante, aperta ai fratelli più bisognosi, amante come Cristo – l’uomo che Dio aveva scelto per suo figlio – della povertà, perché non si può «servir a Dio et alle ricchezze». Ammonizione che insistentemente rivolgeva alle clarisse di Udine, con le quali era venuto in contatto, e che, convinte ormai del vero messaggio cristiano, esortava ad abbandonare il loro «seraglio» per «servire alli commandamenti di Dio ordinati da Christo suo figliolo»[23], senza continuare a vivere in un’indegna dissimulazione. Anche quando il rimanere in Italia si era fatto più rischioso, il Gecchele non aveva voluto riparare in terre più sicure, come invece i suoi compagni di fede. Incarcerato nell’agosto del 1571 e consegnato al tribunale inquisitoriale del patriarcato di Aquileia, aveva costantemente rifiutato di abiurare ed era stato sentenziato di morte a Gorizia nel dicembre 1571. Richiesto a Roma, rimasto «ostinato et pertinace nella sua falsa openione», veniva arso vivo, come s’è già detto, presso il ponte S. Angelo il 18 dicembre 1573. Anche lui aveva svolto il suo apostolato lontano da Bassano; tuttavia, a differenza del Negri e del Cabianca, la sua vita di dissidente era cominciata in patria. Se è vero che quando fuggiva con la famiglia all’estero era da anni residente a Vicenza, dove viveva in contrà Porti facendo il tintore, è però «andando da Bassano a Vicenza, ad un’acqua che correva nella via publica» che era stato ri-battezzato dall’anabattista asolano Marcantonio Prata[24]. Un incontro avvenuto verosimilmente in Bassano, le cui mura, dunque, già materialmente sbrecciate da tempo[25], non la difendono dall’assedio della Riforma in pieno fermento. Tutt’attorno a Bassano, almeno dal quarto decennio del Cinquecento, sappiamo agitarsi idee eterodosse, dal luteranesimo allo zwinglianesimo, al calvinismo e, diffuso tra modesti artigiani, l’allarmante anabattismo; idee e movimenti che serpeggiano e si radicano non solo nelle principali città limitrofe, a Vicenza anzitutto, centro di calvinisti e di anabattisti, a Padova con la sua università cosmopolita, a Treviso con l’irrequieto contado, ma, in un raggio ancor più corto, ad Asolo, a Cittadella, a Breganze, lungo la Valle del Brenta già percorsa dagli sconfitti hutteriti, persino, di là del ponte sul Brenta, nella contigua Angarano vicentina, e poco oltre a Marostica, e più a sud alle Nove e a Tezze, a levante a Mussolente e più a nord a Crespano. Se Venezia, popolata di bassanesi, rimane il punto di convergenza della vita culturale, artistica ed economica della cittadina pedemontana e quindi luogo di più facile trasmissione anche di dottrine eterodosse, è però in quei centri minori che può avvenire, più sotterraneo e sicuro, il contatto quotidiano tra i gruppi dissidenti. Piccoli, eppure ben noti alla storiografia della vita religiosa del Cinquecento in Italia, che invece ignora quasi del tutto Bassano. Nella vicina Asolo si forma uno dei nuclei più rilevanti dell’anabattismo veneto, centro propulsore di proselitismo, e intanto un podestà veneziano degli anni Trenta, Nicolò Pisani, mette in circolazione la Tragedia del Negri e mantiene buone relazioni con l’asolano Benedetto Del Borgo, vescovo anabattista, giustiziato a Rovigo nel 1551[26]. A Cittadella la movimentata vita eterodossa, da tempo ampiamente studiata, diviene centro di attenzione europeo per la vasta eco suscitata dal caso di Francesco Spiera, morto disperato nel 1548 dopo l’abiura, nella convinzione di avere imperdonabilmente rinnegato la verità[27]. Ancora, da piccoli centri dei dintorni di Bassano giungono denunce ai vicari episcopali di Vicenza, Padova, Treviso e Belluno, fino al tribunale dell’Inquisizione romana di Venezia, al nunzio pontificio e al Consiglio dei Dieci. Basti accennare all’allarmata lettera dell’arciprete di Breganze ai Capi dei Dieci per la presenza in quel villaggio della «malledetta secta lutherana» con «forsi cinquanta case» di vicentini «tuti questi lutherani marcissimi»[28]; o al tentativo di resistenza armata presso Camazzole sul Brenta, non lontano da Cittadella, dopo i primi gravi provvedimenti repressivi del governo veneziano contro gli anabattisti in seguito alle delazioni di Pietro Manelfi[29]; o alla vivace polemica sollevata da un francescano osservante in Marostica per un libro da lui dato alla fiamme perché eretico e invece difeso con ardore da alcuni marosticensi[30]; o ancor più meritevoli di attenzione i processi intentati contro il picaresco pievano di Mussolente, Lorenzo Busnardo, accusato di luteranesimo e di ardite opinioni sui testi biblici[31]. Ebbene, mentre tutt’attorno anche piccoli villaggi sono oggetto dell’intervento repressivo del potere ecclesiastico e secolare, Bassano sembra non attirare l’attenzione dell’Inquisizione, o in qualche modo riesce a tenerla lontano. Posta su un’importante strada di transito di persone e di merci allo sbocco della Valbrenta, nel suo piccolo Bassano ha tutto l’interesse, come Venezia, a impedire che il fattore religioso diventi elemento di disturbo civile ed economico. Impressione non confortata da sufficiente documentazione, ma, insomma, a Bassano la religione non costituisce un elemento di turbolenza, se si eccettua la secolare lite giurisdizionale per la nomina dell’arciprete, su cui il comune vanta un giuspatronato contestato dall’episcopato vicentino. Non lo sarà, più avanti, con l’Interdetto del 1606-1607, quando le censure ecclesiastiche, che colpiscono il Dominio veneto, saranno motivo di forti tensioni religiose e sociali tra la dominante e la Terraferma[32]. Gina Fasoli nel 1980, di fronte a questa scarsa vivacità di vita individuale e collettiva religiosa della comunità bassanese, senza dubbio con uno sguardo particolare al Cinquecento, finiva per ammettere: «A Bassano sul piano re­ligioso vero e proprio, sul piano della spiritualità […] non si verificano eventi clamorosi, né in bene, né in male; non sappiamo come vi si ripercuotessero i grandi avve­nimenti che maturavano altrove»[33]. «Altrove» è dibattito, proselitismo, crisi personali e persino sociali, repressione; a Bassano invece sembrerebbe che né preti, né frati siano tanto compresi nel compito imposto dall’alto di obbligare i penitenti a denunciare i concittadini contaminati dall’eresia o in possesso di libri proibiti. Scarse le delazioni e pressoché tutte provenienti da fuori. Così la vicentina Aquilina Loschi, benché conosciuta a Bassano, dove era vissuta con il primo marito, come «lutherana marza», aveva potuto mantenere le sue convinzioni religiose neppur tanto mascherate, fino a quando, a Venezia, era incappata nella rete dell’Inquisizione[34]. In Bassano non sembra necessario neppure ricorrere a un rigoroso nicodemismo, se tra i pochi indiziati c’è chi, eretico conclamato, può impunemente evitare di assolvere ai precetti pasquali, allontanandosi la mattina di Pasqua dalla città senza dare scandalo[35]. E può persino accadere che, parlando tra donne, una di esse imprudentemente metta in dubbio possibili apparizioni di Madonne miracolose («che li miracoli che si fanno dalli santi et dalla gloriosa Vergine siano tutte baie», sintetizzerà l’accusa l’Inquisitore di Vicenza) con scandalo di molte donne («si messero a gridare»), senza che per questo parta un’immediata denuncia, che infatti ritarderà di oltre quattro anni[36]. In questo clima se non di omertà, almeno di prudenziale reticenza, non stupisce più di tanto che ben due denunce ravvicinate di devianza ereticale, particolarmente preoccupanti, cadano nel vuoto. La prima avviene durante la visita pastorale nel settembre 1542, in cui l’arciprete Francesco Pizzamano, interrogato «de male sentientibus in fide», rispondeva che da più parti aveva sentito esserci «quosdam qui habent aliquas opiniones erroneas», additando all’origine «diversi fratres monasterii sancte Catherine ordinis Heremitarum»; caso però circoscritto, rassicurava l’arciprete («eas intra se continent»); ma nella successiva visita pastorale del maggio 1544, un frate conventuale di San Francesco si mostrava ben più allarmato nel segnalare «in castro Bassani» «aliqui heretici vel hereticorum fautores aut receptores», confermando che il tutto partiva dagli eremitani del convento di Santa Caterina, che in confessione mettevano in discussione la materia dei voti e che «circa purgatorium» insegnavano «quod non reperiatur». Ma nonostante che «multi sunt in castro Bassani impliciti diversis erroribus», all’inquietante notizia non segue alcun provvedimento[37]. Singolare poi il caso di Sigismondo Welser, membro della celebre famiglia tedesca, inquisito nel giugno del 1535 dal suffraganeo di Vicenza con l’accusa di diffondere «l’eresia lutherana, anzi zwingliana» in Bassano; nel darne notizia alla Segreteria di Stato il nunzio pontificio Girolamo Aleandro rassicurava con soddisfazione che il tedesco aveva ammesso le sue colpe ed era stato condannato all’abiura pubblica. Un’onta «per l’honore di quella famiglia, quale è tutta catholica et da bene», avevano però subito eccepito l’ambasciatore cesareo e i molti importanti tedeschi presenti a Venezia. Era sufficiente, insisteva un preoccupato doge, trovando concorde in questo il nunzio pontificio, una cerimonia privata. Ragion di Stato, ma non meno cogente ragion di Chiesa avevano presto ottenuto il benestare di Roma, dati i tempi «estremamente pessimi», che consigliavano di non irritare l’imperatore Carlo V, umiliando «una gran casata et molto potente et grata alla Maestà Cesarea». Comprensibile il comportamento di Venezia, che mette in second’ordine il fattore religioso per quello politico-economico; comprensibile anche l’atteggiamento del nunzio Aleandro, infaticabile segugio d’eretici, ma anche consumato diplomatico. Meno comprensibile invece la totale disattenzione verso i bassanesi «intossicati» da «quel ribaldo», i quali, una volta risolto l’affare dell’abiura del Welser, vengono del tutto ignorati[38]. Prudenziale nicodemismo o tranquilla ortodossia[39], favoriti da un’accorta politica del ceto dirigente locale, interessato a salvaguardare gelosamente quel poco di autonomia che restava a una cittadina di Terraferma nella crescente tendenza centralizzatrice dello Stato moderno e della Chiesa tridentina? Importava intanto che a Bassano l’eresia non si palesasse e non facesse rumore. Non stupisce allora che rari e senza storia siano a Bassano gli eretici che si affacciano nelle storie generali o locali, spesso solo in una nota a piè di pagina; improvvise comparse e altrettanto repentine sparizioni, senza lasciare traccia nel contesto della vita della città[40]. Appena un nome è quel «Camillo Corazza di Bassano», che in un costituto di Nicolò Pavia del 1571 compare tra i molti calvinisti sparsi per l’Italia all’inizio degli anni Settanta del Cinquecento[41]; e così è anche per «un bassanese detto Bastian», «ceroico» di professione, che un ambulante di nome Andrea aveva conosciuto a Vicenza negli anni Cinquanta, ma che in seguito era andato «alla volta di Vienna»[42]. Né molto di più sappiamo di quel «Cristofano ciroico da Bassano», ricordato grazie alla minutissima Cronaca del vicentino Fabio Monza, dove si legge, sotto il giorno 8 agosto 1587: «È stato catturato per eresia Cristofano ciroico da Bassano, che pratica col medico Pace e colla signora Bianca Angaran». Della sventurata Bianca Nievo, moglie del nobile vicentino Giacomo Angarano, che commissiona ad Andrea Palladio la villa sulla sponda destra del Brenta, conosciamo la tragica fine nelle carceri vicentine; per il cerusico Cristofano una laconica sentenza: «Christofori chirurgi Illustrissimi ordinaverunt quod exequatur sententia», lo fa uscire di scena senza altri particolari[43]. Di scarso rilievo la figura di Gabriele Michiel, inquisito per eresia ma forse più confinabile nell’ambito della miscredenza, che nel 1592 viene dal vescovo vicentino Michele Priuli multato di 25 ducati, quale contributo alle spese per l’altare della Madonna del Rosario del duomo bassanese: un segno dell’esaurimento del compito del Sant’Ufficio nella lotta all’eresia, in gran parte debellata nel tardo Cinquecento e volto sempre più alla repressione di altri comportamenti, che nulla hanno a che fare con la Riforma protestante[44]. Di un personaggio bassanese, Bartolomeo Testa, quasi unicamente noto per i contatti avuti con Francesco Negri, vorremmo sapere ben di più. Sacerdote e letterato di qualche prestigio, è a Padova «maestro de casa de monsignor Stampa», quando si incontra con il Negri venuto in Italia durante la quaresima del 1530. Nella lettera del 5 agosto di quell’anno a Paolo Rosello, il Negri, ritornato a Strasburgo, rievoca gli incontri italiani con i «fratelli» di fede (al tempo, una fede orientata sulle dottrine zwingliane), tra i quali il Testa[45](fig.4).

4FrancescoNegriLetteraRosello

4. Francesco Negri, Lettera a Paolo Rosello, 1530. Nella lettera del 5 agosto di quell’anno a Paolo Rosello, il Negri, ritornato a Strasburgo, rievoca gli incontri italiani con i «fratelli» di fede (al tempo orientata sulle dottrine zwingliane), tra i quali il Testa.

Poco altro sappiamo della sua vita religiosa, se non per i contatti avuti a Padova con Fulvio Pellegrino Morato[46]. Ma l’unica lettera rimastaci di Francesco Negri, spedita da Chiavenna il 28 dicembre 1538[47], a Bartolomeo Testa, residente allora a Milano, se è ricca di preziose informazioni sulla vita dell’esule bassanese, sulle non floride condizioni economiche e sulla scuola privata di lingue classiche da lui aperta, frequentata da pochi alunni, non poco ci fa intuire anche sui rapporti tra i due, sui loro scambi epistolari, sulla consonanza religiosa e culturale, sui possibili incontri personali tra Chiavenna e Milano. E non meno illuminante è, nella lettera, quanto riguarda i rapporti con Bassano: Negri chiede a Testa di portare, «quando li accaderà di andar a Bassano», i suoi saluti agli «amici bassanesi», di dargli «aviso su come passano le facende» là, di mostrar loro un libro di Paolo Giovio da lui tradotto e mandato alle stampe: dunque, quel prete di convinzioni riformate, dissimulatore o meno, non nasconde in Bassano la sua amicizia e i costanti contatti con l’eretico Francesco Negri. Di più per ora non sappiamo; non sappiamo se cela agli amici le sue convinzioni religiose, se altri le condividano o le contestino; né ci è permesso immaginare se negli anni che verranno, Bartolomeo Testa consegnerà ad alcuni «amici bassanesi» la Tragedia del libero arbitrio, e, prima ancora, se il Negri gliel’abbia inviata. Ulteriori ricerche renderanno più ricco e variegato il mondo bassanese implicato in vario modo con la Riforma, ma probabilmente senza modificare sostanzialmente il quadro offerto dalla storiografia odierna. A confermare questa ipotesi sembrerebbero soccorrere gli elenchi affollati di nomi, che i missionari anabattisti portavano con sé per incontrare i «fratelli» rimasti in patria o per consegnarli, come Pietro Manelfi, all’Inquisizione; ma in quelli di Giulio Gherlandi o tra le delazioni di don Pietro Manelfi non c’è traccia di bassanesi, e nel ricco e compromettente indirizzario di Francesco Della Sega risultano presenti appena due-tre nomi del territorio bassanese, non fatti oggetto di alcuna attenzione[48]. È più che probabile che dai fondi dell’Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede, nonché di altri archivi diocesani per quanto esigui, possano uscire documenti finora sconosciuti, ma è difficile che ne risultino nuove spiccate personalità o gruppi consistenti di bassanesi nel panorama veneto. D’altronde il ricco fondo archivistico del Sant’Ufficio di Venezia, già dissodato da innumerevoli studiosi, non ha modificato la fisionomia della vita religiosa bassanese, e nel diligente ottocentesco «Inventario 303» di quel fondo archivistico alla voce, peraltro generica, di «luteranesimo» vengono riservati non più di quattro casi, di cui due con esigua documentazione[49]; nessuno, inoltre, sotto la voce di «libri proibiti», se si esclude il rimando al pittore bassanese Carlo Da Ponte, denunciato a metà Seicento al tribunale veneziano dell’Inquisizione, ma solo per il possesso del celebre testo di magia Clavicula Salomonis[50]. Un silenzio fin troppo compatto per non suscitare il sospetto o anche solo la curiosità di vedere oltre la facciata dell’ortodossia. Ancora una volta, merita non dimenticare il diffuso fenomeno, in Italia, del nicodemismo. Al caso della moglie del bassanese Giacomo Billa, che mette in dubbio le apparizioni della Madonna con conseguenti miracoli, s’è già accennato osservando come solo a distanza di anni venga portato a conoscenza dell’Inquisizione; denuncia senza un seguito per la donna, che attira l’attenzione dell’Inquisizione quasi unicamente perché la sua imprudente provocazione in quel gruppo di donne fa presentire ben altre e gravi convinzioni eterodosse del nucleo famigliare, in particolare del fratello Gabriele Michieli, in verità, s’è già detto, più libertino che eretico[51]. Ma in un altro momento di vita quotidiana, nel conversare confidenziale tra due cognate, l’Inquisizione apre una breccia per andare oltre alla copertura nicodemitica bassanese. Il processo[52] che si svolge presso il tribunale dell’Inquisizione di Venezia nella seconda metà degli anni Settanta contro la famiglia di Giuseppe Leonardi rappresenta, nella esiguità di notizie della storia della Riforma a Bassano, il momento più denso di motivi dogmatici. Denunciante è la veneziana Elisabetta Crivelli, vedova del bassanese Antonio Maria Leonardi, che alla morte del marito si trasferisce a Bassano, in casa del cognato Giuseppe Leonardi, tintore, abitante in «borgo Margnan sopra Brenta». È durante quel soggiorno di diciotto mesi, che Cornelia, moglie di Giuseppe e cugina peraltro di Elisabetta, le parla delle idee religiose del marito, della sua esperienza oltralpe, dei progetti di vita, dello smarrimento da lei provato nel ripensare quei problemi religiosi. Al tribunale veneziano Elisabetta riferisce le confidenze della cognata: che «suo marido Isepo non credeva nella messa, et che tanto era el sagramento quanto el pan che si manzava in casa»; che metteva in dubbio i giubilei, le indulgenze, il purgatorio, i poteri del papa, a cui Cristo non aveva concesso la stessa autorità data a san Pietro; che non rispettavano, il marito e i suoi fratelli, i digiuni e le astinenze prescritti dalla Chiesa, né le festività religiose. Ben più allarmante era l’uscita incontrollata della stessa Cornelia che alla cognata, credente nella resurrezione dei morti, aveva obiettato: «Che sastu tu di questo? Chi te l’ha ditto? Dove si trovalo questo?» Errori certamente appresi dal marito, che a sua volta ne era venuto a conoscenza a contatto con gli eretici, prevalentemente anabattisti, nella sua esperienza d’oltralpe. «Mio cugnado Isepo – rivelava poi Elisabetta – mi ha detto a me che lui è stato in terra de’ luterani (non mi ricordo il nome del paese), ma che vi erano doi gesie, quella de’ luterani, che non vi era se non li muri con el pergolo, e quelle de’ catolici aveano li altar con el santissimo sacramento»; lui, confidava sempre il Leonardi alla cognata, «l’era andato a veder se poteva trovare exercitio del suo mestier, perché li piaceva quel paese, perché non si sforciava niuno a creder quel che non voleva»[53]. La deposizione di Elisabetta è del 3 gennaio 1576. Quel giorno stesso l’Inquisitore veneziano scriveva al vicario episcopale di Vicenza perché ordinasse una segreta indagine presso i parrocchiani e i vicini su Giuseppe Leonardi, la moglie Cornelia, i fratelli Francesco e Tommaso, «tutti molto infetti di heresie». Il processo vero e proprio, stando alla documentazione veneziana, iniziava solo il 7 aprile 1579, con la convocazione dei due inquisiti nella cappella di San Teodoro, e si concludeva a metà luglio di quell’anno. Non c’era stata fretta ad affrontare il caso: per quanto «molto infetti», non sembravano pericolosi nell’ambiente bassanese. Poco conta qui seguire il processo, i costituti, prima di Cornelia e poi del marito, principale imputato. La linea di difesa dei Leonardi, debitamente concordata per uscire al più presto dalla brutta situazione e limitare i danni, prevedeva, se necessario, parziali ammissioni e persino pronte dichiarazioni di pentimento. Al rilievo più allarmante, e pesante, dell’ostia, che non differiva dal «pan, che si manzava in casa», dottrina di chiara ascendenza radicale, i due accusati avevano creduto di rimediare ribadendo ostinatamente che non mettevano in dubbio la presenza reale di Cristo nell’eucarestia, ma solo che ciò avvenisse se a officiare fossero «preti e frati cativi»; i giudizi espressi sul papa, chiariva Cornelia, non erano quelli del marito, ma dei luterani. Qualche lieve ammissione veniva fatta sul culto dei santi e, pressato dai giudici, Giuseppe Leonardi finiva per confessare che un tempo, ma non più ora, aveva creduto che «non si trovasse il purgatorio» e che «non fosse bene, né necessario far dir messe per li morti, far elemosine per li morti e altri suffragi». Sul suo espatrio aveva precisato che era stato «in terra de’ Grisoni», ma che «non li piacque il loro procieder in conto alcuno». Il suo traviamento, rivelava, era di vecchia data, quando in Vicenza, oltre venticinque anni addietro, attendendo «all’arte della lana», aveva sentito «raggionare» di eresie «in botega da coloro che lavoravano in casa de mio padre». Ma assicurava che da alcuni anni era andato «spurgandosi»: era assiduo alla messa nei giorni festivi e si confessava regolarmente. Il 14 luglio Cornelia e il 16 Giuseppe recitavano l’abiura nella cappella dell’Inquisizione veneziana in San Teodoro: pene lievi per la moglie, più pesanti per il marito, al quale sarebbe spettata una condanna ad perpetuas carceres, subito commutata in digiuni, visite di chiese, suffragi per i morti, indulgenze plenarie da lucrare annualmente, e l’obbligo di restare, ovunque andasse, a disposizione del Tribunale veneziano[54]. Nel costituto del 9 luglio, alla domanda dell’Inquisitore su contatti con altri dissidenti, Giuseppe Leonardi aveva ammesso che dieci anni prima aveva stretto amicizia con Giuseppe Faoro bassanese e con Alberto Bellandi «mercante de panni», anch’egli abitante a Bassano, entrambi tempo addietro inquisiti a Vicenza, dove avevano abiurato. Nomi ormai inoffensivi, su cui l’inquisitore non aveva insistito. Tempi passati, e questo per merito dell’azione tempestiva dei tribunali vicentini e veneziani del Sant’Ufficio, che avevano stanato e stroncato a fine anni Sessanta vari eretici del Bassanese. Poi non era più successo nulla, se non un ultimo sussulto nel giugno del 1573, come veniamo a sapere da due biglietti dell’Inquisitore di Vicenza a quello di Venezia, in cui chiedeva se nei processi a «prè Giulio Baio e Alberto da Bassano» e in quello a «Yosepho Fauro» si facesse il nome del maestro di scuola bassanese Battista Otello[55]. Giuseppe Faoro, Alberto Bellandi, Giulio Baio erano solo alcuni degli inquisiti di una vasta operazione di repressione che aveva fatto capo al Sant’Ufficio veneziano, e che pur svolgendosi tra la fine del 1568 e il 1570 proiettava la sua ombra su tutto il decennio precedente e sulle ultime vicende dell’anabattismo veneto. Un episodio rimasto finora stranamente nell’ombra[56]. Un caso complesso, di cui in questa sede non è possibile affrontare che il versante bassanese, trascurando anzitutto la figura principale della vicenda, il prete Domenico Zachi (Zachis), nativo di Castelfranco Veneto, già rettore della chiesa di Tezze, villa tra Bassano e Cittadella, dal 1561 al 1564, poi confessore delle Convertite alla Giudecca. Personaggio inquieto e sconcertante, rinchiuso a metà dicembre 1568 nel carcere veneziano di San Giovanni in Bragora, nella sua precipitosa e penosa confessione-delazione ai giudici dell’Inquisizione veneziana lascia intravvedere ampi e variegati scenari sul mondo riformato veneto[57]. Il primo dei quali è il noto caso dell’autunno del 1562, quando due tra i più rappresentativi capi del movimento anabattistico, Francesco Della Sega e Antonio Rizzetto, vengono arrestati dal podestà di Capodistria e consegnati al Sant’Ufficio veneziano, mentre stanno accompagnando una ventina di proseliti del Cittadellese e del Bassanese verso la Moravia. Un testimone diretto di quel gruppo di emigranti, Francesco, figlio di Antonio Crosaro, reduce dalla Moravia, a distanza di alcuni anni aveva poi narrato l’avventura a un confidente, probabilmente il nuovo rettore della chiesa dei Santi Pietro e Rocco di Tezze, Giovanni Ciscati di Lusiana, che a sua volta ne aveva messo al corrente il Sant’Ufficio veneziano[58]. A Capodistria, aveva raccontato Francesco, «furno presi quelli dui che li conducevano, chiamati Francesco et Antonio, che venivano qua a sedurli; pur la compagnia sopradetta non restò di andar a Moravia, ove erano instrutti di andar», e là avevano saputo che i due erano stati annegati a Venezia e li «avevano come martiri». Un caso clamoroso, che ora, attraverso le denunce partite da Tezze[59] e le rivelazioni dello Zachi, ritornava alla luce, svelando retroscena sconosciuti e personaggi finora sfuggiti al controllo dei tribunali ecclesiastici e secolari. Loro, della «setta anabattistica» (così lo Zachi), lo avevano irretito nelle false dottrine, quando, raggiunto il beneficio curato di Tezze nel 1561, indirizzato da alcuni dissidenti del luogo, aveva cominciato «a pratticar in Basciano» con alcuni di «opinioni luterane et eretiche [...] ond’io – confessava con dubbia sincerità – cominciai a vacillare et lasciarmi seddurre». E faceva i nomi di Piero Ravaglia dei Poli, oltre ai già ricordati Faoro, Baio, Betti con i suoi due figli, nomi che andavano ad arricchire l’elenco di altri dissidenti di Tezze e dei dintorni, già segnalati nelle iniziali denunce. Nei costituti dello Zachi non mancavano puntuali domande degli inquisitori di carattere dottrinale, sulla confessione de iure divino o meno, sulla reale presenza del corpo di Cristo nell’ostia, sul valore della messa, sulle indulgenze concesse dai pontefici romani, sul purgatorio, sull’intercessione dei santi; domande che ritorneranno nei processi ai dissidenti denunciati dallo Zachi e tempestivamente fatti catturare; ma al Sant’Ufficio veneziano, sorpreso della presenza nel Bassanese di quella che sembrava una fitta trama di anabattisti, importava di più scoprirne la consistenza numerica per debellare definitivamente i residui, pur sempre pericolosi, dell’anabattismo in terra veneta. Nell’ordinare la cattura a Tezze di Matteo Lago, i Capi del Consiglio dei Dieci avevano usato espressioni forti: «questo Serenissimo Dominio – scrivevano al podestà di Bassano – sopra tutte le cose desidera che questa pernitiosa peste et trista qualità de huomini siano del tutto estinti et anihilati ad honore et gloria del Nostro Signor Dio et manutentione della sua santa fede». Per la prima volta il Sant’Ufficio, con l’aperto sostegno dei Dieci, entrava pesantemente nel mondo bassanese e allestiva immediati processi per accertare se anche Bassano fosse da considerarsi una «città infetta». La reticenza degli indagati non permetterà di ottenere un’esaustiva risposta all’allarmante interrogativo: ostinati nel negare l’evidenza, gli inquisiti si erano limitati ad additare come eretici di loro conoscenza solo persone decedute, o fuggite e ora al sicuro, o già condannate dal Sant’Ufficio e non più in circolazione. Giuseppe Faoro aveva persino protestato che in Bassano non vi fosse «nissun homo cativo», smentendo con forza le voci che in città «se riducevano quindese o trenta a raggionar» di cose eretiche. Soprattutto secca era la risposta degli inquisiti sull’esodo in Moravia: «io non so niente»; «Signor, io non so niuno». Solo prè Giulio Baio (o Baggio) alla domanda «se l’ha mai praticato con gente che andavano o venivano da Moravia o conossiuta famiglia alcuna che sia andata in Moravia», aveva risposto: «Signor no, excetto che d’un Gregorio Zonta, il quale è stato bandito da questo Santo Officio di Vicenza de terra e lochi, et anco il medico Montino similmente bandito [...], ma dove siano andati non lo so». Senza star a seguire i singoli processi, già il mero elenco di persone indagate[60] dall’Inquisizione e in qualche modo vicino ai gruppi anabattistici in città o nel suo territorio si presenta come un caso unico nella storia della Riforma a Bassano: a parte il prete Domenico Zachi, ecco Pietro Rivaia (Rivaglia) de’ Poli, muraro presso il ponte di Bassano, già deceduto al momento della retata; Antonio Crosaro e sua moglie, di Tezze, emigrati con i figli in Moravia; il prete bassanese Giulio Baio (Baggio); Iseppo Faoro (Fauro, Fabro, de’ Navarini), fabbro bassanese e mercante di ferramenta; Matteo Lago di Tezze, Ceccon Sampiero di Santa Croce di Tezze, Alberto Bellandi (detto anche Betti e in altri documenti Bellavidi), di Roma, ma venuto a Bassano dopo il noto sacco del 1527; lui e gli altri ultimi quattro, subito assicurati alle carceri vicentine, processati e sottoposti all’abiura. Ma altri nomi vengono allo scoperto, come un Bernardino Barbieri, più libertino che eterodosso[61]; Francesco e Nicolò Facchin, carrari; e soprattutto i già ricordati Gregorio Zonta, notaio bassanese, e il medico Bastian Montino, denunciato quest’ultimo al nunzio pontificio a Venezia per proselitismo ereticale («che non dovesse credere nel sacramento della eucarestia, né manco confessarsi», insegnava l’eretico), di cui era stato vittima un Massimo Rizzo di Angarano, «sonadore», ravvedutosi dopo un anno[62]. Pochi nomi per considerare Bassano una «città infetta»; ma resta il fatto che a Bassano verso la fine degli anni Sessanta si scopriva ufficialmente la presenza della dissidenza religiosa da tempo iniziata e solo ora fatta emergere dall’Inquisizione dallo stadio di un chissà quanto prolungato nicodemismo. Quei processi ci fanno pure assistere a un andirivieni di libri proibiti, tra città e contado; pochi in verità, ma gli unici finora documentati nel Cinquecento bassanese. A parlarne per primo era stato lo Zachi, che addebitava a Giuseppe Faoro la circolazione di un «Valdense», di un Ochino, di una «Confessione del Vergerio», della «Notomia della messa» e di un «Brucioli». Dopo aver negato categoricamente qualsiasi coinvolgimento nel primo interrogatorio, dichiarando solo di avere una Bibbia in volgare e aggiungendo di non conoscerne il traduttore, il Faoro nel secondo costituto, «plorando et cum maxima effusione lacrimarum», aveva ammesso di aver trovato il Brucioli, in due volumi, in casa della famiglia dell’ormai defunto Marco Moro, lasciato da un suo fratello celebre predicatore. Li aveva prestati al prete di Tezze e al «tristo sugietto di Gregorio Zonta», il quale a sua volta gli aveva portato uno Zwingli, l’Ochino e il Vergerio; ma lui, ci teneva a precisare, aveva letto solo il Brucioli e l’Ochino; gli altri libri, appena si era accorto che parlavano male della Chiesa, li aveva lasciati allo Zachi e allo Zonta[63].   Questo a fine anni Sessanta; poi, con le già ricordate eccezioni, la città tornerà a disertare i tribunali del Sant’Ufficio, almeno per quanto riguarda la Riforma. Una decina di anni prima, un atto notarile, datato 27 dicembre 1558, ci fa incontrare nuovamente don Bartolomeo Testa, dopo che l’avevamo lasciato, nel 1538, in stretti rapporti con Francesco Negri, «fratello» zwingliano. A distanza di vent’anni, quel documento, stilato dal notaio bassanese Giulio Gosetti, ce lo mostra in Bassano, «in Conventu Sancti Francisci ante Capellam Sancti Antonii», mentre dota l’altare della cappella di San Giovanni Battista della chiesa di San Francesco di Bassano, che già aveva fatto restaurare e arricchito della omonima pala, capolavoro di Iacopo Dal Ponte, perché vi venisse celebrata quotidianamente una messa[64]. Nella parte introduttiva di quell’atto, in cui in toni paludati si dà ragione del restauro della cappella e della sua dotazione, cogliamo con sorpresa una vera e propria dichiarazione di fede, oltre che nel Dio «summus Trinus», nel culto dei santi, «non homines terreni, sed caelestes spiritus, deitate radiati», ai quali il popolo si rivolge, nelle «ecclesiae materiales», da sempre «custoditae, ampliate et veneratae» dai sommi pontefici, a imitazione del «divum Petrum», e dagli imperatori; chiese officiate dai sacerdoti, veri angeli sulla terra, poiché «sicut in coelo angeli, ita sacerdotes in terris summam Trinitatem venerantur». In questo culto dei santi e del ministero dei sacerdoti, nel riconoscimento storico dei papi, successori di Pietro, e naturalmente in quelle messe quotidiane celebrate in una cappella, è irrealistico sospettare un comportamento simulatorio e dissimulatorio del Testa: fin troppo esibita la presa di distanza dall’amico d’un tempo Francesco Negri, l’eretico irridente all’Anticristo romano con il suo seguito delle false opere (le messe, il culto dei santi ecc.) che salvano. Ma nell’insistita apologia delle «ecclesiae materiales», nel riconoscimento dei due sommi poteri di papi e imperatori, nell’atto di fede nel Dio «summus Trinus» non è inverosimile intravvedervi anche una risposta al radicalismo sociale e all’antitrinitarismo di origine padovana dell’anabattismo già serpeggiante anche in ambito bassanese. Bartolomeo Testa, un tempo eterodosso e ora pienamente conformato allo spirito controriformistico, che si andava affermando in Italia, lasciava alla comunità bassanese la tela del «Battista nel deserto», l’opera di Iacopo Dal Ponte più profondamente religiosa tra quelle destinate alla sua città[65]. Nell’atto notarile della dotazione della cappella del Battista uno dei due testimoni è «magistro Iacopo a Ponte pictore, et cive Bassani» (fig.5).

5JacopoBassanoSan-Giovanni

5. Jacopo Bassano, San Giovanni Battista nel deserto, olio su tela, 1558. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, inv. 19. Bartolomeo Testa è ricordato in un documento del notaio Gosetti mentre dota l’altare della cappella di San Giovanni Battista della chiesa di San Francesco di Bassano, che già aveva fatto restaurare e arricchito dell’ omonima pala, di una messa quotidiana.

Non sappiamo quali fossero, e da quando, i rapporti tra il sacerdote e il pittore bassanese, e ignoriamo soprattutto quanto sia intercorso per quella tela tra artista e committente. Resta, innegabile, tuttavia la sensazione di una stridente incompatibilità tra quel latino curialesco inneggiante a messe, papi e imperatori, chiese e sacerdoti, angeli e Trinità, e quella tela del Bassano, in cui un uomo quasi selvatico, dal volto incolto, viene investito violentemente da una luce abbacinante accompagnata da un forte vento che penetra impetuosamente tra l’intrico dei rami; ai piedi, nell’ombra, un grande libro rimasto aperto, forse lasciato cadere al momento dell’irruzione di quella forza estranea, che d’improvviso sorprende e soggioga irresistibilmente l’attenzione di quell’indifeso eremita. Verrebbe da pensare, guardando a quel libro fino ad allora inutilmente interrogato, a quel luminoso vento innaturale (soprannaturale?) inaspettato, a quel volto rapito dalla luce, che la grazia divina giunge senza annuncio, che la rivelazione del Cristo non è dovuta alla ricerca umana, alle opere, perché la fede è puro dono, gratuito, appunto, e imprescrutabile, di Dio all’uomo salvato senza alcun suo merito. Ma lo storico, carente di una concreta documentazione scritta, non è autorizzato a spingersi tanto avanti.

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