Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

Gli ultimi anni del Cinquecento ed i primi del Seicento furono un periodo di grave difficoltà per i lanifici pedemontani. L’Italia settentrionale, insieme a buona parte del bacino del Mediterraneo, fu colpita da una serie di intense carestie, con conseguenze particolarmente pesanti per le manifatture che producevano beni di consumo destinati agli strati più umili della popolazione. Durante queste fasi di penuria e di carovita, infatti, contadini ed artigiani erano costretti a destinare tutte le loro scarse risorse all’approvvigionamento di generi di prima necessità, in primo luogo cereali, e riducevano al minimo la spesa per prodotti non alimentari, rinviando a tempi migliori gli acquisti di manufatti. Il risultato era un crollo della domanda di pannilana, puntualmente denunciato dalle corporazioni dei lavoratori tessili bassanesi, che si trovavano messi alle strette dalla crescita del prezzo del pane e dall’aumento della disoccupazione. Negli stessi anni la produzione di panni alti si ridusse sin quasi a sparire: a Marostica, uno dei pochi borghi del vicentino dove se ne fabbricavano, il lanificio entrò in una crisi senza sbocchi ed anche a Bassano nel 1601 si confezionarono solo 50 pezze di questo tessuto, a fronte di 3.000 panni bassi[67]. Anche se gli studi condotti nell’ultimo trentennio hanno contribuito ad attenuare i giudizi estremamente negativi sul destino delle manifatture italiane e venete nel corso del Seicento espressi dalla letteratura precedente, non v’è dubbio che la prima metà del secolo fu un periodo nel complesso difficile per i lanifici della Terraferma veneta. Salvo il caso di Marostica, l’attività proseguì nei centri tessili dell’alto vicentino, sia pure su scala ridotta rispetto al Cinquecento. Maggior fortuna ebbero le manifatture dell’alto trevigiano, in particolare quelle di Cavaso e Crespano, che affiancavano alla produzione dei rozzi ed economici “cavasotti” quella di panni bianchi destinati ad essere rifiniti ed esportati dai mercanti veneziani. In questo contesto la situazione del lanificio bassanese sembra rispecchiare la collocazione geografica del centro pedemontano, in una posizione intermedia tra i borghi dell’alto vicentino in stagnazione e le più dinamiche manifatture rurali asolane. Un indicatore, per quanto approssimativo, dell’evoluzione del settore tra la fine del Cinquecento e la metà del Seicento può essere individuato nell’andamento della manodopera, ed in particolare nel numero dei tessitori. Attraverso le liste dei partecipanti ai capitoli dell’arte, integrate con gli elenchi compilati a fini assistenziali, quale quello redatto nel 1631 in tempo di peste, o a fini fiscali, com’è il caso della ripartizione dell’imposta per i “galeotti” del 1646 si può constatare che il numero di questi artigiani attivi nel centro urbano variò di poco, da 60 a 70 unità, tra il 1577 e il 1597, per poi crescere sino a superare il centinaio negli anni tra il 1608 e il 1613[68]. La peste provocò, sia direttamente che inducendo gli artigiani ad allontanarsi dal centro urbano, una drastica riduzione della manodopera, tanto che nel 1631 vennero censiti solo 19 uomini e 12 donne, per la maggior parte vedove. È evidente che un tracollo di queste dimensioni avrebbe rappresentato il colpo di grazia per un settore già in difficoltà e non più competitivo, quindi la presenza di 62 tessitori nel periodo compreso tra il 1635 e il 1639 e di 70 artigiani nelle liste per ripartire l’imposta dei “galeotti” nel 1646 vanno considerati come un segno della persistente vitalità economica del lanificio a Bassano. Sommando le diverse categorie di impiegati nel settore, e tenendo presente che alcuni di loro, come i mercanti di panni, i tintori e una parte dei tessitori e dei garzatori dovevano avere alle loro dipendenze altri lavoratori, si può presumere che un numero superiore ai 200, e forse prossimo ai 250 capifamiglia, trovasse lavoro nel lanificio. Pur restando nell’incertezza sull’ammontare della popolazione della Bassano del tempo, in mancanza di rilevazioni demografiche contemporane alle liste per i “galeotti”, si può ritenere che i lavoratori del settore costituissero un quarto o un quinto della forza lavoro urbana. Del resto famiglie che vantavano una tradizione plurisecolare di investimento nel settore, come i Lugo o i Bellavitis, proseguirono la loro attività sino alla fine del diciassettesimo o agli inizi del diciottesimo secolo. Ed è significativo che a fianco dei molti imprenditori che si trasferirono nel bassanese per dedicarsi alla lavorazione e al commercio della seta ve ne furono altri, come i Remondini, che conservarono i loro interessi nel lanificio pur lanciandosi in nuovi e proficui investimenti in altri settori.   

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