Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

1DaneseCattaneo-LazzaroBonamico

1. Danese Cattaneo, Lazzaro Bonamico, bronzo. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, inv. S69. Lazzaro Bonamigo, allievo, segretario ed esecutore testamentario del filosofo mantovano Piero Pomponazzi,  docente a Padova di greco e latino, poeta, fu amico di personaggi legati all’evangelismo, il cardinale inglese Reginald Pole e la marchesa di Vasto Vittoria Colonna.

Lazzaro Bonamico (fig.1) nacque a Bassano nel 1477 o 78 da famiglia ragguardevole. Studiò latino e greco a Padova, dove fu allievo del Pomponazzi. Nel primo decennio del Cinquecento collaborò con Aldo Manuzio nella ricerca e nella stampa di testi greci. Fu poi precettore privato dei rampolli della nobiltà a Mantova, Bologna, Genova. A Roma fino al 1527 fece parte del circolo che si riuniva attorno ad Angelo Colocci. Dal 1530 alla morte, avvenuta il 10 febbraio 1552, visse e operò a Padova come professore universitario[9]. Il Bonamico, quando era professore di latino e greco allo Studio padovano, fu senza alcun dubbio un personaggio di grande rilievo, a Padova e fuori. Ma la fama acquisita, dopo la sua morte, conobbe un rapido declino: in breve, il nome del maestro che aveva attirato a Padova scolari di tutta Europa sopravvisse soltanto nelle carte degli eruditi, e per di più come figura di sfondo. In verità fu la tradizione umanistica latina in Italia, verso la metà del Cinquecento, a subire un generale ripiegamento e a refluire con la sua retorica nel chiuso delle aule scolastiche. Il lascito culturale di chi difese ad oltranza la validità universale del latino in opposizione alla letteratura in volgare non fu rivendicato da eredi e parve il residuo di un’età gloriosa ma ormai superata. A sminuirne i meriti, poi, concorse in maniera determinante il fatto che Lazzaro scrisse poco e non si curò mai di pubblicare quel che aveva scritto, affidando così la propria fama solo alla memoria di quanti avevano potuto udirlo da vivo. Stando a Gerolamo Negri, che il giorno dopo la morte, l’11 febbraio 1552, ne pronunciò l’orazione funebre, Lazzaro era solito lamentarsi della tristezza dei tempi, vedendo molti occupati a scrivere le loro inezie anziché dediti allo studio degli antichi, dai quali fluisce ogni dottrina e sapienza. Alcuni contemporanei ritenevano che la riluttanza a pubblicare fosse determinata dalla paura di esporsi alle critiche degli avversari, o più banalmente ne indicavano come causa la smodata passione per il gioco, che gli occupava le serate. Sta di fatto che di lui, a parte qualche lettera o poesia sparsa, furono pubblicate postume due sole operette: i Concetti della lingua latina nel 1562 e il Carminum liber nel 1572. Il corso di latino, uscito nel 1562, dieci anni esatti dopo la sua morte, è l’unica opera che il Bonamico sembra aver predisposto per la pubblicazione, come fa presupporre la brevissima introduzione dell’autore allo smilzo libretto di un centinaio di pagine[10]. In essa si dichiara che lo stile latino deve ricavarsi solo dagli ottimi autori, che nell’ambito della prosa sono Cicerone, Cesare e Terenzio (il senario giambico delle sue commedie è evidentemente per il Bonamico assimilabile alla prosa). Degno di rilievo il fatto che la trattazione, contrariamente alla consuetudine, è tutta in italiano ed abbandona la forma dialogata di domande e risposte. Per quanto riguarda il metodo, viene seguita la teoria della dipendenza: sono infatti presi in esame i vari verbi, suddivisi a secondo dei complementi che reggono. Il Carminum liber, invece, fu un atto di omaggio determinato dalla pietas dei suoi discepoli, che nel contempo sfruttavano anche la favorevolissima congiuntura editoriale della fama non ancora spenta di un maestro rinomato[11]. A promuovere l’iniziativa e a sobbarcarsi le spese fu certamente l’amico Alessandro Campesano, ma la cura della pubblicazione fu attuata da Alessandro Ferrazzi, che di Lazzaro era il nipote; tant’è che il Campesano in una lettera si premurò di ribadire di non aver nessuna colpa dei numerosi errori contenuti nella stampa[12]. L’antologia poetica di Lazzaro è costituita da 21 epistole metriche, di cui 19 sono in esametri e due in distici elegiaci, e da una quarantina di componimenti brevi, in genere epigrammi, in vario metro, con prevalenza però di distici elegiaci. Nel vasto panorama della lirica latina rinascimentale poco aggiungono di originale e creativo le poesie di Lazzaro Bonamico, che si fanno apprezzare solo per qualche spunto più riuscito ripreso dalla tradizione classica, come, ad esempio, l’epistola al vescovo di Verona Gian Matteo Giberti, che, tutta intessuta di echi oraziani, ci presenta il bel quadro paesaggistico della primavera che avanza dopo lo sciogliersi delle nevi invernali. Di tutto il libro, però, quel che rimane più impresso nella memoria è la bella invenzione poetica che del maestro ci ha lasciato il Ferrazzi in una sua epistola in esametri indirizzata al Campesano e in un carme più breve in distici elegiaci. Il Ferrazzi, che ha approfittato dell’occasione della stampa per inserire nel libro anche numerosi suoi componimenti, rappresenta il maestro in un fantasioso incontro nell’Ade nell’atteggiamento paradigmatico di chi sorridendo pacato ci lascia, sottraendosi così per sempre alla nostra vista: "ille autem nos ubi contra/ conspexit, ridens mihi se subtraxit" («egli poi, quando mi vide di fronte, sorridendo si sottrasse alla mia vista»)[13].  

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