Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

L’aspetto più significativo ed incisivo dell’operato dell’amministrazione bassanese durante il Quattrocento si concentrò sul governo dei beni comuni, che Venezia aveva concesso in toto al governo locale al momento delle trattative intorno ai patti di dedizione[34]. I beni comuni bassanesi consistevano in tutte quelle «possessiones campanearum, pratorum et alliarum proprietatum» che ricoprivano gran parte della pianura della podesteria e si estendevano dal Brenta sino ai confini con Cartigliano, Rossano e Cittadella e che oggi comprendono oltre a parte del territorio del Comune di Bassano quelli di Rosà e Tezze sul Brenta. Usucapiti da Francesco da Carrara, quei terreni erano stati restituiti al Comune bassanese da Gian Galeazzo Visconti[35], con successiva conferma veneta al momento del formarsi del nuovo Stato, quest’ultima giustificata ufficialmente per ricavarne le entrate per pagare il medico ed il maestro condotti. La Serenissima aveva dunque escluso quei beni sia dalla fattoria carrarese messa all’asta alla fine della guerra sia dai beni comunali[36], che restavano di esclusiva proprietà e pertinenza del demanio; un grande privilegio per la comunità, che ben prestò cominciò a sfruttarlo in maniera intensiva.
Ad inizio secolo essi si presentavano come un’area ancora poco organizzata e divisa in tre macrozone (i prati, il vignale e la villa) poco omogenee al loro interno. Al principio del Quattrocento una larga fetta di quel territorio era quindi ancora destinata al solo prato spontaneo od occupata da qualche piantata di vigne, ma per la gran parte restava a garbo se non ad incolto. Le potenzialità che una gestione completa e libera da altri vincoli di quel capitale fondiario poteva portare vennero però ben presto intuite dal gruppo di governo sia a livello di bilancio che per un uso più privatistico. Una lunga evoluzione che si cercherà di tracciare schematicamente nelle sue tre fasi principali: un primo periodo di grosso sfruttamento attraverso una rapida e massiccia privatizzazione dei suoli per mezzo di cessioni a livello perpetuo; un secondo che, a metà del secolo, si legò con la creazione del fondaco e le prime resistenze verso una progressiva spoliazione delle aree di pascolo; infine un terzo, negli ultimi decenni, che costrinse la capitale ad una diretta entrata in campo per rimodulare i criteri di assegnazione, onde placare un conflitto per l’uso delle risorse comuni ormai radicatosi fra gli interessi del Comune capoluogo e dei grandi proprietari in contrasto con quelli degli allevatori e piccoli-medi proprietari terrieri. Come dicevamo nei primi anni del secolo le vaste aree pianeggianti di proprietà comunale erano ancora poco sfruttate. In un inventario dei beni comuni del 1410 si trovano elencati 80 livellari che fornivano una rendita totale alle casse pubbliche pari a £ 482 di piccoli[37], ma l’apparente vivacità quantitativa viene smorzata dal dato qualitativo: la maggior parte delle concessioni riguardava piccolissime parcelle fondiarie e la frammentazione della proprietà anche per gli stessi individui era notevole; ad eccezione di qualche influente membro consiliare, come Oradino Rossignoli od Oliviero Compostella, nessuno deteneva più di qualche campo quando non parti d’esso.   Inoltre non si riscontrava una grande varietà di tipologie di lavorazione, né quelle poche si concentravano in zone precise; mentre al contempo il tasso di incolto o non lavorato restava alto. Un quadro che iniziò a mutare sin dagli anni ‘20, quando il ceto dirigente prese consapevolezza della risorsa. Un caso emblematico risale al 1428, quando in Consiglio esplose un conflitto fra le fazioni al potere a partire dalla proposta di mettere all’asta per un quinquennio ampie quote dei beni comuni, su istanza promossa da quello stesso Giacomo dall’Amico che pochi giorni dopo chiese di acquisire un centinaio di campi. Una proposta che aveva avuto anche un interesse personale alla base e che fece sollevare la parte avversa guidata da Andrea Fontegari, ma alla fine un accomodamento d’interessi fra le parti consentì al Fontegari di garantirsi almeno 25 campi a livello perpetuo ed al dall’Amico di entrare nel consorzio di soci (tutti membri di Consiglio o di famiglie emergenti) che si garantiva l’appalto di tutta l’area dei prati del Comune – i cosiddetti prati di madonna Fina – con un livello ventennale[38]. Da questo momento la concessione di parcelle (anche ampie) di terre del Comune divenne una costante da parte del Consiglio nella gestione di questa risorsa, dando vita ad una corsa ai beni comuni nella quale bastava presentare una supplica per vedere quasi sicuramente un esito positivo alle proprie richieste. In questo modo famiglie bene inserite nel gruppo dirigente aumentarono i loro capitali immobiliari, ad esempio i da Santa Croce, ma soprattutto le nuove famiglie immigrate ed emergenti si assicurarono quel patrimonio fondiario che insieme alla rete di relazioni costituì il capitale per l’entrata nelle stanze del potere: nel 1425 Jechele da Oliero si assicurò in una volta 300 campi (circa 135 ettari) ed un centinaio furono quelli ceduti al lanaiolo Antonio da Como, mentre qualche anno dopo Bonturella Campesan aveva già accumulato oltre 200 campi (circa 80 ettari)[39]. Il tutto era reso ancor più vantaggioso dal fatto che in quasi tutti i casi si trattava di livelli perpetui, grazie ai quali i livellari si assicuravano per sempre il dominio utile sulle zone più fertili del distretto, con canoni d’affitto annuali bassissimi rispetto al mercato, normalmente pari ad appena 2 soldi di piccoli al campo. Un nuovo inventario del 1431 mostra quindi un quadro totalmente cambiato[40]: era aumentata costantemente la porzione di beni comuni privatizzati, confluiti in ampia misura fra i patrimoni delle famiglie consiliari (spiccano i dall’Amico con 83 campi, i Rossignoli con 92 o i Compostella quasi 400) o di quelle emergenti, ma paradossalmente si era abbassata la rendita, a causa dello scorporo dei prati e dei bassi canoni livellari. Inoltre furono questi gli anni durante i quali i primi patrizi veneziani iniziarono ad investire a loro volta nel mercato fondiario, appoggiandosi alle cessioni comunali. Già nel 1427 Giovanni di Pietro Morosini si assicurava un livello perpetuo su 200 campi nella più fertile zona della Rosà, con l’esborso di £ 10 di piccoli subito ed in seguito un canone annuale di solo 1 soldo di piccoli ed inoltre godendo di privilegi fiscali[41]. In questa prima fase si registrò quindi l’espandersi dell’uso dei beni comuni, ma solo in piccola parte andò a vantaggio dei piccoli proprietari. Inoltre iniziarono ad emergere due altri problemi che il Comune dovrà affrontare dalla metà del secolo: innanzitutto la capacità (e la necessità) di fare cassa, rispetto ad una costante situazione di deficit, attraverso la cessione di questo tipo di beni, per svincolarsi dai prestiti privati; ed in secondo luogo il crescente malumore dei rurali a fronte del ridursi dei pascoli comuni. Questioni che si ripresentarono lungo tutta quella che abbiamo anticipato essere la seconda fase di gestione dei beni comuni, che si aprì alla fine degli anni ‘40 con la creazione del fondaco del grano[42]. Fu una soluzione inedita rispetto alla linea tenuta dai ceti dirigenti degli altri capoluoghi della Terraferma veneta, che continueranno anche per una lunga parte dell’età moderna a rifiutarne la creazione, al fine di continuare a mantenere il monopolio della rivendita delle granaglie. A Bassano rispose invece a due esigenze, la prima delle quali voleva assicurare l’approvvigionamento alimentare alla popolazione in momenti di crisi, in un contesto dove gli spazi per la piccola proprietà andavano riducendosi e dove le aziende fondiarie che stavano nascendo sulle ampie possessioni ormai costituite si indirizzavano verso un più intensivo sfruttamento della vite, per specializzarsi in una coltura che beneficiava di ampi sbocchi commerciali e che meglio dei cereali rispondeva alle qualità pedologiche del territorio. Al contempo c’era anche la necessità di continuare a cedere parti della campagna, attraverso un più redditizio meccanismo d’asta, per coprire le necessità di spesa e le uscite del Comune. Lo squilibrio raggiunto traspare da una relazione del 1453 redatta da parte dei tre deputati che l’anno prima avevano ricevuto l’incarico di valutare l’opportunità di affittare i pascoli comuni, che continuavano a ridursi[43]. Vi era la necessità di mediare fra gli interessi dei piccoli proprietari e dei pastori (l’allevamento ovino restò per tutto il secolo uno dei principali comparti del distretto) e la prassi ormai vincolante di far ricorso alle rendite fondiarie per tamponare i bilanci. L’amministrazione dei beni comuni continuava dunque a procedere su binari paralleli (l’interesse privato, le rendite, le esigenze della popolazione) sempre più in contrasto fra loro, ma che la politica doveva tentare di conciliare. Fu in questi anni che, a beneficio delle casse comunali, si ricalibrarono i prezzi di cessione ed affitto dei lotti. Nel 1456 al consueto piccolo canone livellario, che restava di 2 soldi di piccoli, si aggiungeva un riscatto iniziale pari a £ 1 di piccoli per campo[44]. Le famiglie di sostanza non avrebbero avuto problemi a versare il contributo una tantum volto a rimpolpare le esigenze d’entrata del Comune, in cambio del mantenimento in seguito del solito canone livellario conveniente e fermo da decenni. Il Comune iniziò quindi una serie di ricalibrazioni che passò per l’aumento del riscatto iniziale (portato a due ducati nel 1465) e la differenziazione dei canoni in base alla tipologia dei terreni, oscillante fra i 4 ed i 16 soldi di piccoli. Un aumento che continuava tuttavia a mantenere i prezzi convenienti e che fu in parte vanificato dalla concessione ai livellari del pagamento degli affitti attraverso il conferimento di altri canoni livellari su terzi, con l’aggravante che questi ultimi caricavano sul Comune le difficoltà di riscossione presso i contadini[45]. Una tendenza ad usare i beni comuni per tamponare il bilancio che dal punto di vista dei rurali e dei contadini costituiva un circolo vizioso: essa continuava a stimolare la cessione di ulteriori quote di beni comuni per ripianare buchi che gli affitti a pieno regime non sarebbero riusciti a coprire in seguito. La documentazione del resto sembra mostrare come lettera morta la decisione consiliare del 1457 di preservare i prati ed i pascoli eliminando le concessioni livellarie a favore di affitti quinquennali, solo in forma di appezzamenti compatti e in zone che non intaccassero ulteriormente le aree aperte; nè furono efficaci gli affitti volti infine a rifornire il fondaco imponendo canoni in segale o frumento. Su queste contraddizioni si giocò quello che alla fine esplose, negli ultimi decenni del Quattrocento, come uno scontro aperto fra la politica comunale e le esigenze dei rurali, dopo che fra gli anni ‘50 e ‘70 l’incidenza dell’allivellamento non trovò nessun rallentamento[46]. Uno scontro che non fu più possibile rimandare fra il 1477-1478 quando i rurali occuparono i pascoli[47]. I provvedimenti messi in atto per riappacificare e riequilibrare la situazione, che si susseguirono lungo il quadriennio 1478-1482[48], nei fatti non funzionarono, esasperando ulteriormente il contrasto fra il Consiglio e i villici organizzati, in particolare gli abitanti della Rosà che diedero la svolta netta agli eventi rivolgendosi alla Dominante, ovvero facendo proprio un comportamento che fino ad allora avevano utilizzato le ville del distretto. Come vedremo a questa data il rapporto fra le due parti si era logorato sotto molti aspetti ed è importante sottolineare come fu in questi momenti ad emergere l’iniziale autoconsapevolezza degli abitanti della campagna, destinata ad esplodere nel Cinquecento. L’ingresso di Venezia nella questione velocizzò il corso degli eventi, sotto il peso delle parole dei rurali che avevano descritto una situazione compromessa per l’allevamento e la piccola proprietà «quod campanea et pascua comunis sunt multum diminuta» perché «quasi in omni consilio residua parte dicte campanee pro intercessione amicorum [i consiglieri] concedunt pro minimo censu»[49]. Il tentativo di mediazione del Comune, forse timoroso di vedere ripetuti gli esiti negativi di precedenti disposizioni veneziane a danno dell’amministrazione locale, fu volto a pacificare pragmaticamente gli animi, ma venne respinto e quando su continua sollecitazione dei rurali si arrivò alla diretta intromissione della Dominante, fino a quel momento mantenutasi estranea, si chiuse dall’alto un processo dialettico e di politica amministrativa esasperatosi lungo i decenni. La capitale anche in questa occasione cercò di mediare fra le rispettive esigenze, ma il gruppo dirigente bassanese non ebbe la forza di imporre la sua voce e dovette subire le decisioni di Venezia, favorevoli al ripristino di un maggior equilibrio. È inoltre interessante come nella risposta veneziana tornassero degli elementi che erano già stati individuati a livello locale, anche se lo stesso Consiglio che li aveva proposti li aveva poi lasciati inascoltati: la locazione temporale dei terreni e la riscossione degli affitti in cereale[50]. Così mentre la Dominante restituiva al Comune la piena proprietà dei campi usurpati dai rurali, al contempo impose un netto cambiamento nella cessione fondiaria dei beni comuni: da questo momento in avanti erano ammessi solo affitti temporali, che con l’amministrazione locale vennero rimodulati secondo le modalità in uso nel privato, limitazione a nove anni e canone in segale a favore del fondaco. L’applicazione delle disposizioni venete sembra confermata dalla documentazione successiva e costrinse l’intero impianto fondiario a ridisegnarsi nel passaggio all’età moderna, con un ritorno alla protezione del pascolo[51] che si accompagnava alla subentrata necessità per il ceto dirigente locale, ormai limitato nella speculazione fondiaria, a concentrarsi con ancora maggior forza sulla manifattura.    

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